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mercoledì 8 gennaio 2003

Wittgenstein e wittgenstein

Poi alla fine vorrei dire una cosa: blog è una parola che non mi piace
Franco Bellacci

In questo pezzo si parla di due wittgenstein ben distinti, e a parte il nome non c’è proprio modo di confonderli.
E poi si parla di blog. Ogni tanto è inevitabile. Forse sapete già come il blog sia un virulento parassita dell’ego: si apre un blog per parlare di sé stessi, e col tempo si finisce di parlare soltanto del proprio blog. C’è chi prova a smettere, ma è dura. Io calo la dose, pian piano…

I due wittgenstein, dunque. Il primo è il blog di Luca Sofri, uno dei più letti e apprezzati in Italia. Sofri ha un’idea chiara su cosa sia (e cosa non sia) un blog, e la porta avanti da un po’ di tempo (senza nessuna acrimonia, bisogna dire):

Si ha ragione quando si dice che è difficile spiegare che cos'è un blog, ma è vero che dei punti fissi ci sono, condivisi da tutti quelli che ne hanno scritto e discusso. Un blog deve avere degli aggiornamenti periodici continui e attuali e deve contenere dei links […]

È chiaro che una definizione così taglia fuori qualche centinaio di blog italiani, compreso forse questo qui, che non linca qualcosa di decente da settimane.
Il che non è un dramma, in fin dei conti. Tra l’altro non ci ho mai tenuto a chiamarlo così. È un nome come un altro e non è nemmeno un granché. E il discorso potrebbe finire qui: non chiamatemi più blog, non aspettatevi da me un link al giorno e nemmeno uno alla settimana, fine.

Mi va invece di prolungarlo, perché leggendo la definizione di Sofri mi è venuto in mente (indebitamente) Wittgenstein: non il blog, ma quell’altro, il filosofo austriaco del linguaggio.
Dal quale io – che non sono mai stato una cima in filosofia – ho ricavato forse quest’unico insegnamento: le definizioni sono cose inevitabili, ma stupide. Nel senso che, dovendo usare una parola (“blog”, in questo caso), è inevitabile prima o poi chiedersi che cosa veramente questa parola significhi. Quale sia il suo significato preciso e definito. Beh, non se ne esce fuori. Almeno, questo è quello che cerca di spiegare Wittgenstein nelle Ricerche Filosofiche.

66. Consider for example the proceedings that we call "games". I mean board-games, card-games, ball-games, Olympic games, and so on. What is common to them all? -- Don't say: "There must be something common, or they would not be called 'games' "-but look and see whether there is anything common to all. -- For if you look at them you will not see something that is common to all, but similarities, relationships, and a whole series of them at that. To repeat: don't think, but look! --

(Non trovate che sia molto espressivo e scorrevole, Wittgenstein tradotto in inglese? In italiano l’ho sempre trovato piuttosto pesante).
Don’t think, but look!, ci dice Wittgenstein. E prosegue dimostrando come nessuna definizione di “game” possa includere tutte le cose che chiamiamo con quel nome. In certi giochi si vince o si perde, in altri no; alcuni si fanno da soli, altri in competizione; e così via.

And we can go through the many, many other groups of games in the same way; can see how similarities crop up and disappear.
And the result of this examination is: we see a complicated network of similarities overlapping and cries-crossing: sometimes overall similarities.


“Un complicato tessuto di somiglianze che si sovrappongono e si intrecciano”, in luogo di una definizione chiara e concisa, data una volta per tutti da un vocabolario o da un consiglio di saggi. Wittgenstein parlava di “gioco”, ma con i blog non è la stessa cosa? Ci sono blog con i link, blog senza link, con commenti, senza commenti, personali, collettivi, blog di personaggi più o meno famosi, blog di gente qualunque. Se potessimo esaminarli tutti, probabilmente non troveremmo nessuna caratteristica comune. Eppure, in un qualche modo distinguiamo in ciascuno di loro quello che lo stesso Wittgenstein chiamava “aria di famiglia”: il complicato tessuto di somiglianze (e dissomiglianze) di cui sopra.

Da Wittgenstein in poi io non mi sono più preoccupato molto di definire le cose che faccio. Preferisco fare quello che mi riesce di fare. L’ansia delle definizioni credo che andrebbe lasciata ai lanciatori di tendenze, che a scadenze fisse devono scoprire qualcosa di nuovo e farci un titolo. Un paio di anni fa si parlava di E/N, oggi di blog, domani sarà la volta di qualcos’altro: con tutto il rispetto, è una cosa che non mi appassiona (tanto io continuerò più o meno a fare le stesse cose, temo). Lo stesso Creatore del cielo e della terra – se mi passate l’immodesto paragone – non si è mai preoccupato di dare un nome a nessuna creatura. Ha preso il primo scimpanzé spelacchiato che passava e gli ha detto: pensaci tu (Genesi 2,19).

Ma torniamo all’altro Wittgenstein, cioè Sofri: perché ha tanto a cuore i link?

(sempre dal ludk web): ... I blogs, invece, hanno i links, e questa è la loro ricchezza: il rimando al mondo fuori dal sito, al resto delle cose che circolano, alle notizie, a quello che avviene altrove).

Che è una cosa condivisibile: un sito con link al mondo esterno dà sempre una migliore impressione, come d’aria fresca (purché sia davvero il mondo esterno, e non una cerchia più o meno ristretta di bloggatori sodali). Ma non so se sia quell’impressione a tenerci davanti al monitor alla costante ricerca di nuovi blog.
Prendiamo lo stesso Wittgenstein (il blog). Perché ha tanto successo? Perché contiene ottimi rimandi alla stampa anglosassone? Perché sa dare risalto anche ai blog degli umili mortali? Può darsi. Personalmente io lo visito quasi tutti i giorni, e clicco forse sul cinque per cento dei suoi link. Eh, non vi aspetterete che mi sciroppi un fondo del Washington Post al giorno (mi domando chi sia in grado di farlo).
È chiaro che a me (solo a me?) interessa qualcos’altro. E che quel qualcos’altro è un certo tipo di stile, che trovo lì, (e altrove), nel modo di metter già i titoli, le battute, le cazzate e le cose un po’ più importanti. Una scrittura. Che è quello che m’interessa, ahimé, forse più dei contenuti.
Insomma, i blog possono parlare di sé o parlare d’altro – e probabilmente è meglio quando parlano d’altro – ma sono comunque individui. Non ci si affeziona a loro per quello che dicono, ma per il modo in cui lo dicono. Che poi dicano qualcosa d’interessante, è un piacevole optional (io ci sto lavorando).

1 commento:

  1. E' il classico pezzo "che ha fatto il suo tempo", che nessuno sano di mente vorrà rileggere. A sforzarsi, si scopre che Ludwig Wittgenstein viene scomodato per illustrare concetti di una banalità impressionante.

    Eppure ai suoi tempi è stato uno dei pezzi che (grazie a Sofri che rilinkò) fece conoscere il blog a un centinaio di potenziali lettori nuovi. Tutti interessati, evidentemente, a una nuova definizione o non-definizione di blog.

    Ora è il 2007 e mi è appena arrivata un'autorevole catena di Sant'Antonio: definisci un blog in duemila caratteri. Perché, evidentemente cinque anni di definizioni non sono soddisfacenti.

    Ero verboso, pretenzioso e scontato, ma avevo ragione: il blog è un virulento parassita dell'ego. Quando avevo cominciato non volevo parlare di lui, ma di me. Soltanto di me.

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