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venerdì 31 ottobre 2003
(con qualche grazie a Casarini)
Dei romanzi bisogna sempre diffidare. Specie di certi romanzi d’oggigiorno, miscele sbarazzine di Storia e finzione, dove tutto sembra sempre tremendamente vero.
Diffidiamo, quindi, di Romanzo Criminale (Giancarlo De Cataldo, Einaudi, 2002): però leggiamolo, in certi punti ne vale la pena. Quando, per esempio, il poliziotto Scialoja riesce a farsi trasferire all’Antiterrorismo (nel ’78, proprio durante il sequestro Moro), restandone subito deluso:
"Le giornate se ne andavano tra una riunione investigativa e l’analisi dei verbosissimi documenti dei collettivi che sorgevano come funghi nel quartiere universitario. E a sera, travestito da ex giovane, assemblee, dove gli toccava familiarizzare con una caterva di ragazzini in fregola di lotta armata, artisti dell’eloquio involuto che spaccavano in quattro il capello dell’aderisco/non aderisco. Velleitari, tardoromantici, a volte involontariamente comici, con quella mania delle sigle e delle accuse da Terza Internazionale. Avanguardia operaia accusa il Movimento studentesco di essere la “nuova polizia”. Lotta continua accusa Ao di essere la “nuova nuova polizia”. Autop accusa Lc di essere la “nuova nuova nuova polizia”. Il tutto sotto gli occhi dell’unica, vera polizia, strategicamente disseminata nei punti cardinali del salotto, dell’aula magna, dello scantinato di turno. Scialoja, che aveva perfino letto il Che, riusciva a comprendere alcune delle loro ragioni. Ma non poteva dimenticare il sangue di via Fani. Quando versi il sangue, passi dalla parte sbagliata".
E attenzione, adesso:
"Scialoja, i brigatisti li immaginava tozzi, quadrati, freddi, meticolosi, banali nel quotidiano, metodici ragionieri del terrore. Se c’era qualcosa da pescare, quello delle barbe, dei toni incazzati e del rito collettivo era sicuramente il mare sbagliato. Questi potevano ammazzarti di citazioni di Marx, Deleuze e Guattari. Quegli altri avevano al massimo il diplomino delle centocinquanta ore e le mani callose, ma smontavano una mitraglietta in quarantacinque secondi. Questi qui erano un fiume di parole. Quegli altri un’acquerugiola di piombo.
Io non so se Sergio Segio abbia ragione, quando dice che “Le Brigate Rosse, sebbene ne siano una componente ultraminoritaria, sono e coabitano nel movimento, hanno infiltrato il sindacalismo di base. Sono interni ai loro luoghi, alle loro sedi, al loro dibattito politico”. In realtà non dice nulla che gli inquirenti non possano confermare: alcune Brigate Rosse circolavano nei luoghi del movimento. Le loro storie politiche – nota sempre Segio, “sono il calco di battaglie e parole d'ordine patrimonio del sindacalismo di base e del movimento della lotta per la casa e quella contro il lavoro interinale”.
Tutto questo è vero, ma è una verità troppo parziale. E non sono io, sono i fatti a mostrare che questo tentativo di infiltrazione non è riuscito, e che i brigatisti sono rimasti gli stessi, vecchi “ragionieri del terrore”, epigoni degli anni di piombo. Segio, come chiunque, crede giusto prendersela con Casarini; lo invita ad “aprire una dura battaglia politica”: sarebbe a dire? Cosa dovrebbe fare, Casarini, prendere distanza dal terrorismo ogni volta che dichiara qualcosa? (ormai ci siamo). Stigmatizzare il primo coglione in fregola rivoluzionaria che scrive su un muro “Gallesi spara ancora”? E in che modo dovrebbe “stigmatizzare”: con le buone, con le cattive? Insomma, Casarini deve diventare (ancor di più di quanto non sia già) il carabiniere del movimento, il capo della nuova nuova nuova nuova polizia? E una volta che Casarini sarà diventato così, di colpo le brutte scritte spariranno dai muri, i ragazzini capiranno che il terrorismo è brutto e marceranno compatti (coi propri corpi) verso il sole dell’avvenire?
Credo di averlo già detto: Casarini ha poche idee, forse sbagliate, ma chiare. Si è ritrovato, in mancanza di meglio, a rappresentare il mondo variegato dei Centri Sociali, che negli anni Novanta galleggiavano nel loro tran-tran autoreferenziale di occupazioni-repressioni-sgomberi-occupazioni-repressioni-sgomberi. È stato forse uno dei primi a rimettere fuori il naso e scoprire obiettivi di portata nazionale, e mondiale: il nuovo zapatismo, la scoperta della globalizzazione, la lotta contro i primi CPT (per la prima volta i giovani dei centri sociali non lottavano per i loro spazi, ma per la libertà di altre persone) e poi contro i grandi vertici: Ocse, Praga, Ventimiglia… (Napoli no)… Genova.
Durante tutto questo tempo, è fuori di discussione che Casarini si sia trovato spesso ad arringare giovani in fregola rivoluzionaria. Ma non ha mai parlato di lotta armata, forse non ha mai nemmeno parlato di rivoluzione. Per la verità, nessuno parla più di rivoluzione in Italia, a parte quello strano uomo che è Sandro Bondi (per lui le Brigate Rosse sono “all’interno del movimento rivoluzionario”: di chi sta parlando?) È una parola che è uscita dall’uso, lentamente ma inesorabilmente, dal 1977 in poi.
Casarini ha fatto forse qualcosa di più: ha cercato un metodo di lotta che non fosse armata, ma che mantenesse almeno un’immagine di radicalità in grado di attirare i ragazzini (perché di questo si tratta, nei centri sociali). Ha trasferito la violenza all’interno del “proprio corpo”: l’esortazione parossistica a ribellarsi col “proprio corpo” equivale al divieto di usare armi di offesa. Su questa “pratica di disobbedienza”, Casarini ha investito la propria immagine pubblica.
È una pratica utile? Dipende dal punto di vista. Farsi massacrare a un blocco non ha impedito nessun grande vertice; ma allo stesso tempo ha cementato un gruppo di persone unite dalla pratica, unite dalle manganellate che si sono prese, unite da una retorica che “rifiuta la dialettica violenza – non violenza” per approdare alla definizione di “disobbedienza”. Tutto questo può sembrare un poco ingenuo, ma non è lotta armata. Anzi, è qualcosa che ha tolto le radici alla lotta armata.
Dopodiché, non siamo obbligati a trovarlo simpatico, Casarini, così come non troviamo simpatici i “velleitari, tardoromantici” movimentisti descritti nel Romanzo Criminale. Ma dobbiamo riconoscere che c’è una bella differenza tra un fiume di parole e un’acquerugiola di piombo: la prima annoia orribilmente, la seconda uccide. Di “ragazzini in fregola rivoluzionaria” ce ne saranno sempre: di terroristi ce ne sono sempre meno. Casarini, Bernocchi, Caruso, potrebbero fare di più? Può darsi: notate però che stanno facendo qualcosa. E che se si meritano critiche, si meritano anche qualche ringraziamento. Per parte mia, almeno: grazie.
mercoledì 29 ottobre 2003
Io per esempio ormai ho messo a fuoco quali sono i momenti in una settimana in cui non posso evitare di dire una stronzata. Non voglio dire che sto imparando qual è il momento giusto per tacere, per quello non credo che mi basterà una vita. Ma adesso so che ci sono momenti fissi, momenti topici, in cui non posso fare a meno di aprire bocca, e dire una stronzata.
Detti momenti sono principalmente due. Uno è all’uscita dal cinema:
“Ti è piaciuto?”
“ehm…”.
Il secondo non ve lo dico, siete in grado di arrivarci da soli. E poi è del primo che volevo parlare.
Doctor Strangelove 2, ovvero:
come ho imparato ad amare il cinema italiano bruttino.
Io non sono esperto di cinema, e mi scuso se a volte lo sono sembrato. Ma credo che si tratti di un equivoco. A volte sento dire: Hai stroncato Muccino, hai stroncato Bellocchio… no, ragazzi, no, io non sono veramente in grado di stroncare nessuno. I giudizi di merito non sono di mia competenza. Quello che faccio io, di solito, è estrarre un paio di argomenti che mi servono in realtà a parlar d’altro. Poi i personaggi di un film possono essermi antipatici, ma questo non ha niente a che vedere la bellezza o bruttezza del film. Che per me rimane imponderabile. O meglio, una qualche idea me la faccio, ma a volte posso metterci una settimana (e di solito è un’idea poco interessante).
“Ma ti è piaciuto, allora?”
“Beh…”
Mentre invece la gente con cui vado al cinema si è già fatta un’idea nell’intervallo. Io in realtà li invidio. Tra l’altro, si tratta di uno dei momenti fondamentali della socializzazione contemporanea: riuscire a dare un breve giudizio su un film, un disco, un libro (avete visto la nuova Blog Review of Books?), dare il proprio contributo al viral marketing globale, bisbigliare il proprio verso nel grande Passaparola che fa girare l’economia. Io non so esattamente in che secolo siamo oggi, se sia breve o lungo, se sia cominciato nel ‘45, nell’89 o nel 2001, in compenso so qual è il genere letterario più importante di questo secolo: la recensione. Essa ha l’importanza che aveva nel Settecento il sonetto: un genere codificatissimo e universalmente praticato in società. Nel Settecento, per la verità, non è che si scrivessero dei sonetti così belli (alzi la mano chi se ne ricorda uno): ma non è questo il punto. Nel Settecento il sonetto si usava per socializzare (“venga qui, marchese, che si dice di nuovo in Arcadia?”).
A noi succede lo stesso. Di sicuro non sforniamo capolavori. Eppure siamo veri artisti di strada del genere recensione, ne sforniamo continuamente, sui blog, al telefono, in treno, al lavoro, in ristorante. Saper spiegare con abilità perché un film ci piace o no è anche un passaggio obbligato per far conversazione con gente che non si conosce bene e con i quali non si hanno molte esperienze in comune. Quante volte abbiamo agganciato un partner discutendo di film e libri e dischi? Fate il calcolo, vi stupirete. La recensione è una componente fondamentale della nostra socialità, della nostra educazione: e pensate che a scuola non ce la insegna nessuno! Nel Settecento almeno i precettori ti insegnavano a mettere i versi al posto giusto.
Dopodiché si può essere bravi o meno, rapidi o meno, e forse io nel Settecento avrei avuto più chances.
“Dimmi solo se vale la pena di vederlo o no, perché stavo pensando di andarci lunedì”.
“Beh, il lunedì… è a prezzo ridotto…”
“Dici che non vale il biglietto?”
“No, no…”
D’accordo: saper dare giudizi di merito è importante. Ma nessuno vive di soli giudizi di merito. In realtà ogni recensione che scriviamo ci assomiglia: io ho scoperto che preferisco leggere le recensioni dei giornalisti che mi sono simpatici piuttosto che quelle dei dischi che mi piacciono.
Inoltre, in generale, preferisco le stroncature. Sono più divertenti, sia da leggere che da scrivere. A dire il vero, se fossi certo che un dato film è brutto e pretenzioso, mi precipiterei a vederlo, perché stroncare un film pretenzioso è quasi più divertente di vedere un bel film.
Anche perché i bei film tendono a essere ‘grandi’ film, a sviluppare intorno a sé un’aura che impedisce la discussione e la socializzazione. Riuscite a immaginare una sera tra amici a discutere di, non so, 2001 Odissea nello Spazio?
“Bello, proprio bello”.
“La scena in cui l’osso cade e diventa un’astronave… fantastico”.
“E quando Hal canta la filastrocca…”
“…da brividi”
“Proprio”.
“Si è fatto tardi, eh?”
“Eh già”.
Per contro ci sono certi film che forse non sono nulla di speciale, ma proprio per questo motivo si lasciano allegramente impossessare da chiunque voglia parlarne, e se ne può parlare per ore, senza stancarsi, e conoscendosi meglio.
L’esempio classico che mi viene in mente è proprio l’ultimo bacio di Muccino, la famosa ultima scena in cui la Mezzogiorno flirta con una ginnasta. Io amo molto quella scena, secondo me vale tutto il film precedente e anche quello successivo. Per me il significato è chiaro, perché in realtà era un significato che avevo già molto chiaro nel mio cuore: proprio le persone che si credono in grado di impegnare tutta la loro vita in un singolo istante, sono quelle che in un singolo istante sono in grado di cambiare idea: le più pericolose al mondo. Mentre tendevo a dare poca importanza all’adulterio di Accorsi, un momento di debolezza di un trentenne, capirai.
Ma mi è successo di parlarne con altre persone, a lungo, e ho scoperto che non stavo parlando di Muccino, stavo parlando di me. Mentre altri (e altre, soprattutto) leggevano la scena in un modo del tutto diverso: è solo un’occhiata, niente di grave… oppure: lei fa bene, perché è stato Accorsi il primo a non essere serio … e così via. E ogni volta che sentivo la stessa storia raccontata in un modo diverso, io conoscevo una persona diversa. Kubrick è un regista migliaia di volte superiore, ma non mi ha mai reso lo stesso servizio in una conversazione.
Riflettendo su questo, ho pensato che forse dovrei dichiarare che amo il cinema italiano – non sto scherzando.
Ma non il neorealismo – siamo seri, chi di voi ha davvero visto un film neorealista, che non fosse doppiato in tedesco e coi sottotitoli?
E nemmeno la commedia italiana – che ci vuole per adorare la commedia italiana? E neppure i grandi maestri: Fellini, Antonioni, Leone… grandissimi, naturalmente, ma a questo punto ci vuole più fegato a dire che Fellini era un po’ prolisso, Leone un po’ lento, e se Antonioni si fosse impegnato un po’, magari qualche cosa riusciva a comunicarcelo.
No. Troppo facile amare quel cinema là.
Invece io voglio amare il cinema italiano bruttino di oggi, i film di Ozpetek e di Muccino, e di Virzì, e Salvatores, e aggiungetene voi. E anche Bellocchio. E perfino Bertolucci, che è italiano in senso lato, ma pure lui fa film bruttini.
Proprio loro voglio amare, con i loro personaggi che fanno una vita normale, ma veramente troppo normale, normale a un punto che certe volte ti sorprendi a pensare che la tua vita è un filo più eccitante, e che forse dovrebbero essere i personaggi di Muccino o Ozpetek a pagare per venire in sala a vedere quello che combini tu nella vita. Quello è il cinema che voglio amare io.
E non m’interessa se non sono il massimo della professionalità col montaggio o la fotografia o il casting, se volessi il massimo della professionalità andrei a vedermi un film di Hollywood, no? A me piace il cinema italiano contemporaneo, arruffato com’è.
E… sapete? Siamo in tanti. Siamo sempre di più. Non sentite, al telefono, in treno, al lavoro, in ristorante? Di che si parla, dei Cohen, di Tarantino? Del terribile Hulk? Ma in fondo cosa c’è da dire sui Cohen o sul terribile Hulk? Sono prodotti perfetti, d’industria o d’autore. Puoi solo dire: bello. O al limite: brutto. E finisce lì.
Ma il cinema bruttino italiano, ti salva le serate d’inverno intorno a un tappeto, o al ristorante. Tutti a dire perché non c’è piaciuto Bellocchio: è troppo tenero coi terroristi, o il contrario, è ingenuo, è revisionista, mi è piaciuto più dreamers, no, guarda che dreamers è una puttanata… sono questi i film che ci fanno discutere. Sono questi i film che ci appassionano. (Sono anche questi, probabilmente, i film che ci fanno agganciare).
Ora è uscito il film di Virzì: credo che andrò a vederlo, e non mi aspetto un capolavoro. Ma in fondo non mi è mai interessato guardare capolavori. Quello che m’interessa è avere argomenti di conversazione, riuscire a parlare di me usando i personaggi di un film che tutti hanno visto, e il cinema italiano bruttino è imbattibile in questo. Vedo che ne ha parlato la Pizia, che addirittura su Petunias è intervenuto il regista. E i blog, e il regista, non discutono di piani sequenza o di qualità della recitazione, ma della realtà in cui viviamo. Non è fantastico? Chi ha bisogno di capolavori? Tarantino andrò a vederlo quest’estate, all’aperto. Non c’è fretta (i capolavori sono senza età).
("Però 2001 Odissea nello Spazio è fenomenale".
"Sì, fenomenale".
"L'astronauta sopravvissuto... Charlton Heston... che interpretazione magistrale".
"Non è Charlton Heston".
"Ah no?"
"Ti stai confondendo".
"Ah sì? E con cosa?"
"Col Pianeta delle Scimmie, temo".
"Oddio".
"Fila via, dai, non dirò niente a nessuno".
"Sei un amico".
"A buon rendere").
La vita sarà letteraturizzata
"4 aprile 1928
Con questa data comincia per me un’era novella. Di questi giorni scopersi nella mia vita qualche cosa d’importante, anzi la sola cosa importante che mi sia avvenuta: la descrizione da me fatta di una sua parte. Certe descrizioni accatastate messe in disparte per un medico che le prescrisse. Le leggo e le rileggo e m’è facile completarla di mettere tutte le cose al posto dove appartenevano e che la mia imperizia non seppe trovare. Come è viva quella vita e come è definitivamente morta la parte che raccontai. Vado a cercarla talvolta con ansia sentendomi monco, ma non si ritrova. E so anche che quella che raccontai non ne è la più importante. Si fece la più importante perché la fissai. E ora che sono io? Non colui che vissi ma colui che descrissi. Oh! L’unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti comprenderanno con la chiarezza ch’io ho tutti scriveranno. La vita sarò letteraturizzata. Metà dell’umanità sarà dedicata a leggere e studiare quello che l’altra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita vera. E se una parte dell’umanità si ribellerà e rifiuterà di leggere le elucubrazioni dell’altra, tanto meglio. Ognuno leggerà se stesso. E la propria vita risulterà più chiara o più oscura, ma si ripeterà, si correggerà, si cristallizzerà. Almeno non resterà quale è priva di rilievo, sepolta non appena nata, con quei giorni che vanno via e s’accumulano uno eguale all’altro a formare gli anni. i decenni, la vita tanto vuota, capace di figurare soltanto quale un numero di una tabella statistica del movimento demografico.
Io voglio scrivere ancora. In queste carte metterò tutto me stesso la mia vicenda. In casa mi dànno del brontolone. Li sorprenderò. Non aprirò più bocca e brontolerò su questa carta…"
Da Le confessioni del vegliardo (racconto pubblicato in appendice a La coscienza di Zeno, nell’ed. Einaudi 1990, a pag. 471. I neretti sono miei).
martedì 28 ottobre 2003
(Cristo, invece, vive).
(invettiva)
Premessa: le tradizioni, le radici, le civiltà, sono bellissime cose, ma a chi servono? Di solito a chi non ha più un gran futuro davanti. C’è tanta disperazione in quella frase famosa, “non possiamo non dirci cristiani”: come a dire: non ci crediamo più, non sappiamo neanche più in cosa crediamo, ma non possiamo non salvare le apparenze. C’è anche tanta disperazione nello sconforto di questi prelati, che sanno benissimo come un crocefisso in un’aula non abbia mai convertito nessuno, ma che forse ignorano quanto sia sprovveduto offrire un simbolo religioso nei luoghi in cui preadolescenti e adolescenti perfezionano i loro istinti di ribellione (ehi, ragazzi, volete sputare su un’autorità? Ecco qui un pratico pezzo di legno).
Per contro si sa in che conto le tenesse Gesù Cristo, le tradizioni, le civiltà. Un giorno andò in sinagoga, lesse Isaia e poi disse: questo passo si è avverato oggi, è di me che si parla. A momenti lo gettavano in un burrone (Luca 4.16-30). I veri profeti se ne infischiano delle tradizioni, o al limite le sfruttano senza pietà. Pensano al futuro, loro.
Anch’io, che profeta proprio non sono, sono abituato a preoccuparmi più del futuro che del passato, se non altro perché solo il futuro può ancora farmi male. Quanti anni ho davanti a me? Riuscirò a trovare un lavoro stabile, sposarmi, andare in pensione? Se mi ammalo, potrò permettermi cure efficaci? Questi sono i miei problemi, e per problemi di questo tipo sono disponibile a scendere in piazza. Viceversa non muoverò un dito per le radici cristiane dell’unione europea, e a chi se ne preoccupa vorrei chiedere: ma avete solo radici da offrire? Guardate che non è un granché.
(Molta gente, poi, che si riempie la bocca di radici cristiane, mi interesserebbe vederla mentre esce di chiesa la domenica. Macché. Sanno recitare il Credo? Sono in regola coi sacramenti? Conoscono più o meno le scritture? È interessante questa idea di cultura che si assorbe alla nascita, senza bisogno che nessuno te la insegni, una linfa che succhiamo da queste preziose radici).
Un’altra cosa molto bella, ma non molto utile, secondo me, è quella che i Wu Ming chiamano mitopoiesi: i racconti di fondazione, i miti, le leggende, i simboli, le bandiere, giù giù fino ai cori da stadio. Sono disegni colorati che piacciono ai bambini di ogni età (e anche a me), ma vogliamo davvero fare delle guerre per questo? Davvero vogliamo imbastire una polemica sul crocefisso nelle scuole? Lo mettiamo in prima pagina? Ma dai. Non a caso i principali animatori di questa polemica sono Adel Smith, Bondi e Castelli: tre provocatori, tre mostri partoriti dal letargo della ragione.
Se volete, poi, di crocefissi possiamo parlare. Attenti perché non è facile: si tratta di guardare con occhi vergini qualcosa a cui da troppo tempo non facciamo più caso (perché siamo stati abituati a snobbarlo fin dalla scuola dell’obbligo, quel povero cristo).
Ma proviamo. Dovremo convenire coi nostri cugini monoteisti (ebrei e musulmani) e cristiani (protestanti e ortodossi non sono grandi fanatici del Cristo in croce) che quel simbolo ha qualcosa di scandaloso. Per prima cosa, è un simbolo di inaudita violenza. Non è un cadavere, è un moribondo all’apice della sua tortura. In fondo col crocefisso noi ricordiamo non solo le nostre radici cristiane, ma anche quelle latine: sono stati i romani a escogitare questa tortura quadrata, razionale, esibita. Nessun supplizio capitale è più spettacolare di una crocefissione: di solito si crocefiggevano gli schiavi ribelli, a mo’ d’esempio.
Quel Cristo torturato è un grande scandalo, però possiamo anche esserne fieri. È un’invenzione del Medioevo italiano (i crocefissi ieratici dei Bizantini, occhi aperti e atteggiamento rilassato, hanno poco a che spartire con un Cimabue). È il primo segno di quello che diventerà il tratto distintivo dell’Occidente: il realismo. L’indagine sulla carne, sulla morte, sull’evidenza fisica delle cose. È stato Auerbach a chiamarla creaturalità e a metterla al centro della storia occidentale: il realismo moderno, scandaloso, implacabile, nasce col Crocefisso. E se io sono orgoglioso di qualcosa di occidentale, sono orgoglioso di questo scandalo.
Però vorrei che restasse uno scandalo: e invece da secoli si briga per banalizzarlo, ridurlo a santino, sistemarlo in tutte le aule di scuola e tribunali, renderlo invisibile a furia di esibizioni. Perché?
Perché fa paura. Non ad Adel Smith: a noi. Noi cattolici.
È passata appena una settimana da quando ci siamo riempiti occhi e bocca della Beata Madre Teresa, una persona che per fare tutto quello che ha fatto non aveva certo bisogno di cultura e tradizioni (tanto che a un certo punto fondò un ordine ex novo). Viveva nel futuro, lei: tutto quello di cui aveva bisogno era un paio di buoni versetti del vangelo.
Nemmeno di crocefissi aveva bisogno: erano gli stessi versetti a ricordarle che Cristo è in ognuno di noi, e soprattutto nel sofferente. E il mondo è pieno di persone che hanno bisogno delle nostre cure, molto più di un pezzo di legno. In questo un laico non può che sottoscrivere Madre Teresa (è sui metodi che è giusto dissentire).
Stessa cosa, in piccolo, nelle nostre scuole: non sono già sufficientemente piene di poveri cristi? Altro che crocefissi ai muri: parliamo di muri, piuttosto. Per uno Smith che si offende davanti a un pezzo di legno, quanti padri di famiglia musulmani che hanno il diritto di preoccuparsi per la stabilità dei plessi scolastici; per l’atmosfera difficile che si viene a creare in classi sempre più grandi, guidate da docenti sempre meno motivati.
Questi sono problemi veri: per questi bisogna lottare, se si ha paura, o speranza del futuro. E voi invece preferite giocare al gioco delle civiltà e litigare per un pezzo di legno. Non per il povero o per il bisognoso: per il pezzo di legno. È tutto quello che vi è rimasto. Perché siete morti, perdonate la franchezza, e siete soltanto in attesa che qualche altro morto venga a seppellirvi. Che faccia avrà, che bandierina sfoggerà, in fondo è irrilevante. Potesse parlare, quel pezzo di legno, saprebbe trovare parole migliori per voi: sepolcri imbiancati, qualcosa su quel tono.
domenica 26 ottobre 2003
Lo tiro fuori perché, malgrado segni un po’ il tempo (si parla di Clinton, Foucault, Panorama e l’Espresso), parla di un argomento di folgorante attualità: la masturbazione. O no.
Onan e l'interpretazione dei sogni (e delle storie)
Sesso e bugie al tempo dei patriarchi
Onan è il secondogenito di Giuda, figlio a sua volta di Giacobbe-Israele (figlio di Isacco figlio di Abramo). Suo fratello maggiore, Er, si "rese odioso al Signore e il Signore lo fece morire" (Genesi 38,7), lasciando vedova la moglie Tamar. Secondo una legge nuziale chiamata levirato, che compare qui per la prima volta nella Bibbia, Onan è costretto dal padre Giuda a sposare la vedova, onde dare "una posterità al fratello".
Ora, attenzione, "Onan sapeva che se fosse nato un figlio, non sarebbe stato suo", e che quindi i beni derivanti dalla primogenitura sarebbero andati al figlio avuto da Tamar, non a lui. Egli accetta di sposare la cognata, ma "ogni volta che si univa alla moglie del fratello, disperdeva [il seme] per terra" (Genesi 38, 9). Oggi non sarebbe ritenuto un fatto grave, ma al tempo dei patriarchi, quando c'erano interi popoli da dare alla luce, si trattava di uno spreco imperdonabile. E infatti "ciò che egli faceva non fu gradito al Signore, il quale fece morire anche lui".
La storia dell'onanismo - che, per inciso, più che alla masturbazione sembra alludere a una pratica di controllo delle nascite tollerata e benedetta dalla chiesa cattolica - finirebbe qui. Ma il racconto di Tamar è solo a metà. Infatti a Giuda è rimasto un terzo figlio, Sela. La legge del levirato, implacabile, pretenderebbe che Tamar si sposasse per la terza volta. Ma Giuda stavolta esita, forse comincia a pensare che sia la nuora a portar disgrazia, insomma le chiede di tornare per il momento a vivere con la madre, in attesa che Sela sia cresciuto.
Tamar capisce che si tratta forse di aspettare all'infinito, e non ci sta: si considera, e la legge le dà ragione, la detentrice della primogenitura di Giuda. E decide allora di dare alla storia un piglio boccaccesco: un giorno, indossato un velo, va ad aspettare per strada Giuda là dove è sicura di incontrarlo. Il velo non soltanto cela l'identità di Tamar, ma è anche l'indumento che identifica la prostituta. Giuda abbocca, offre un capretto. La nuora velata resiste, non vede capretti lì intorno, chiede per il momento un pegno: il suo sigillo, il suo cordone e il suo bastone. Giuda accetta. "Allora glieli diede e le si unì. Essa concepì in lui" (Genesi 38,18). In seguito i due non si incontrano più, un capretto viene effettivamente inoltrato, ma nessuno riesce più a ritrovare la misteriosa prostituta.
Tre mesi dopo Tamar non può più nascondere il pancione. Quando la notizia del disonore viene portata a Giuda, questi ordina di trascinarla in strada e darle fuoco. Ma poi, ricevuti dalla donna il suo sigillo, il suo cordone e il suo bastone, egli cambia improvvisamente idea. Tamar non solo non ha commesso adulterio, ma anzi, col suo sotterfugio ha risolto la cosa nel migliore dei modi: non Onan, non Sela, ma soltanto Giuda, poteva dare a sé stesso un primogenito. "Essa è più giusta di me", ammette il genero-padre, apprestandosi a riconoscere come legittimo il figlio-nipote. Anzi, i due figli-nipoti, gemelli, che già litigano per uscire durante il parto… ma questa è un'altra storia.
Chi dice masturbazione dice sogno. Anche e soprattutto ad occhi aperti, magari a fissare la centrifuga della lavatrice: ma pur sempre sogno, immaginazione, racconto. Poi naturalmente una certa manualità aiuta, ma fino a un certo punto. Senza la fantasia la mano gira a vuoto. Il racconto, non la mano, sostituisce il partner. Oggi, che è ormai diventato un certo problema stabilire se siamo tutti, in partenza, dei narratori (e se quindi possiamo tutti frequentare un corso di scrittura creativa con profitto), io ho questa verità divertente da offrire: un racconto lo sa fare (sa farselo) chiunque riesca a masturbarsi. Una cosa che credo chiunque potrebbe mettersi a scrivere con un poco di impegno sono i romanzetti porno, quelli che si vendono nelle edicole.
Ma poi c'è il sogno ad occhi chiusi. Quello è notevole: è il racconto-partner che prende l'iniziativa sul suo autore (monaci e monache avevano due nomi per i demoni che tentavano i loro sogni: incubi quelli che montavano sopra alla sognatrice, succubi quelli che si infilavano sotto il sognatore). I due grandi critici di questi racconti sono stati, a secoli di distanza, Artemidoro di Daldi e Sigmund Freud. Il secondo è considerato universalmente noto, anche per il modo ossessivo in cui riesce a ricondurre qualsiasi fantasia o sogno dei suoi pazienti alla sfera sessuale: questi vengono da lui con storie di lupi, uccelli, asce, e a tutti Freud risponde: mi state parlando di sesso, quel che davvero mi volete dire è: sesso. In effetti non c’è oggetto animato o inanimato che Freud e i suoi seguaci non abbiano contribuito a erotizzare. I narratori, in ispecie i minimalisti di questo o quel periodo, devono essergli enormemente grati, perché dopo di lui è stato possibile scrivere di sesso raccontando praticamente qualsiasi cosa, anche solo descrivendo un qualsiasi soprammobile in un interno borghese.
Artemidoro - dal quale parte Foucault nel terzo volume della sua storia della sessualità - è tutto il contrario. I suoi clienti sognano di avere rapporti orali e anali con genitori, parenti, colleghi di lavoro, amici di famiglia. Se anziché esercitare nella costumata ed isterica Vienna asburgica, Freud avesse avuto pazienti del genere, gli sarebbe rimasto ben poco da interpretare. Non così Artemidoro. Per lui il sesso non è la chiave del racconto, ma soltanto il mascheramento. Farsi fare una fellatio significa opportunità di buoni affari, farla voi ad altri è segno di miseria imminente. I contemporanei di Artemidoro sognano di fare del sesso non perché non abbiano l'opportunità di praticarlo da svegli, ma perché ciò che vogliono farsi raccontare è qualcos'altro: come vanno gli affari, la salute, la reputazione. Quanto al sesso, cosa c'è poi da sapere, che si debba per forza chiedere ai sogni, e ai racconti? Mi capita di sognare corpi nudi e cose così. E ho un certo rispetto per la scienza empirica di Artemidoro: con me funziona.
Quanto ad Onan, il punito dal Signore? Il racconto biblico non afferma che il secondogenito di Giuda abbia inventato la masturbazione. Quella probabilmente c'era già, o forse no, al cronista non importa. Ciò che spiace al Signore non sta nel gesto di spargere il seme per terra, quanto nel mero retroscena economico che sottende: lasciando Tamar infecondata, Onan viola la legge del levirato e tenta di frodare il padre e la cognata usurpandone la successione. Un analista freudiano che si ritrovasse Onan sul lettino, potrebbe anche raccontargli che egli teme la vagina-cavità dentata per via di qualche trauma infantile, che soffre naturalmente la figura del padre, ecc.… ma Artemidoro sa qual è in questo caso la verità: Onan ha ben altro che il sesso in mente, ciò che gli preme è primogenitura. Per quella fondamentale primogenitura, del resto, Tamar non esita a truccarsi da prostituta, e nessuno osa darle torto: né Giuda, né il cronista, né il Signore. Ma in tutta la storia, a parte l'eccitazione improvvisa di Giuda (che mi riesce il personaggio più simpatico), non c'è traccia di desiderio sessuale. Onan non prova nulla per Tamar, Tamar non prova nulla per Giuda, ciò che questi uomini e donne si fanno non è un gioco di piacere, ma un gioco di potere. Siamo agli antipodi del Kamasutra, della beata civiltà del piacere. Siamo però, in pieno, nel nostro mondo giudaico-classico-cristiano. Dove di sesso se ne parla sempre poco e male - intanto, però, se ne parla sempre; dove un'inchiesta sui nuovi costumi sessuali degli italiani (meglio se minorenni) comunque è una cosa che ti fa comprare Panorama o L'Espresso una volta ogni tanto. E non annoia mai, stuzzica sempre, dice più o meno le stesse cose. Come la pornografia (e come il rock’n’roll).
E perché non annoia mai? Perché chi dice masturbazione dice sogno, e chi dice sogno dice racconto. E anche qui, noi, come i lettori della Bibbia, di Panorama e dell'Espresso, stiamo soltanto cercando delle storie. Storie di sesso e bugie, dove anche spargere un po' di seme per terra è gesto proibitissimo da severissime autorità morali (che poi hai un bel da cercarle dal vero, mai trovato in tanti anni un confessore che mi chiedesse se mi tocco), dove essere l'uomo più potente della terra non ti risparmia dal dover chiedere una fellatio per favore, sennò puoi incorrere in guai legali. Dove insomma il sesso, come sapeva bene Artemidoro, non è che il mascheramento, il velo di Tamar, e noi tutti ci facciamo un po' la parte di Giuda, talmente allupato da farsi fregare il bastone e il sigillo. Tanto parlare di sesso, insomma, ci nasconderebbe che in fondo il sesso non è poi così importante, che ci sono ben altre cose di cui si dovrebbe parlare con serietà e non si parla perché quelle sì, sono davvero scandalose: le primogeniture, i rapporti di potere, i rapporti economici - non il pene di Clinton, ma il suo conto in banca. Non i nostri usi e costumi sessuali, tristi o divertenti, ma il nostro prezzo: l'etichetta che sarebbe indecente mostrarci addosso (forse Il sole 24 ore è la vera pornografia).
venerdì 24 ottobre 2003
(continua da ieri. Vedi anche l'errata corrige)
… ma negli anni successivi, man mano che cassetti e armadi vengono rovistati, il criterio adoperato nell’edizione del 1968 viene giudicato sempre più discutibile.
Scoppia una querelle tra studiosi: quando Fenoglio ha scritto veramente il Partigiano? Alcuni lo considerano uno degli ultimi lavori di Fenoglio; per altri invece si tratterebbe di una delle sue prime prove in italiano, il canovaccio da cui poi trarrà materiale per tutti i libri successivi. Di questo parere è Maria Corti, che nel 1978 pubblica le due stesure insieme, una dopo l’altra, in un’edizione critica delle opere di Fenoglio (sempre Einaudi). Purtroppo questa edizione per “addetti ai lavori” si esaurisce presto. Una delle ultime copie l’ho trovata io, al mercatino di Piazza Verdi, e me la tengo.
Forse è per questo motivo – molto poco scientifico – che sono portato a fidarmi più delle argomentazioni di Maria Corti; ma dopotutto, cosa importa? È davvero molto interessante sapere se Fenoglio ha scritto il Partigiano negli anni Quaranta o negli anni Cinquanta, prima o dopo Primavera, in ordine cronologico o a ritroso? Non sarebbe meglio cercare di capire quale delle due versioni sia la migliore, così da poter consegnare ai lettori il romanzo nella migliore forma possibile?
Qui si entra, naturalmente, nel campo minato della soggettività: chi può decidere una volta per tutte quale è la versione migliore? L’autore è morto: e dopotutto nemmeno da vivo si era mostrato un saggio giudice del proprio lavoro. E se malgrado il parere di Virgilio leggiamo l’Eneide; se abbiamo salvato dalle fiamme le opere di Kafka; tanto più dobbiamo ritenerci liberi nei confronti di Fenoglio, che non ha lasciato nessuna indicazione testamentaria. Siamo liberi di scegliere la stesura che ci piace di più. E non c’è nessun motivo di carattere filologico che ci costringa a preferire la seconda stesura alla prima, come accade nella prima edizione Einaudi (e anche nella successiva del 1994, curata da Dante Isella: la stessa che probabilmente vi hanno venduto con la Repubblica).
In realtà, questa stesura è più incompleta della prima. Oltre a numerosi tagli, mancano i primi capitoli (che infatti vengono recuperati dalla prima stesura). L’impressione è che Fenoglio stesse cercando di rendere il lavoro più stringato e scorrevole per convincere Citati e Garzanti a pubblicare il suo romanzo-fiume in due volumi. Ma come abbiamo visto, nel 1958 è lui stesso a rinunciare al progetto, ammazzando Johnny a metà strada: e se Fenoglio ha tradito Johnny, perché noi non dovremmo tradire Fenoglio? La seconda stesura è un aborto incompleto: la prima è un vero e proprio romanzo, magari con qualche lungaggine e qualche anglismo di troppo, ma completo. È quello il vero Partigiano Johnny, a mio parere.
Siccome il mio parere vale comunque quel che vale (0.00), cercherò di corroborarlo con un esempio che secondo me è decisivo. Avete sottomano l’edizione di Repubblica? Andate a pag. 239. Siamo ad Alba, il giorno in cui i partigiani si impadroniscono della città (il primo dei famosi 23 giorni della città di Alba). Camminando in direzione della caserma, Johnny intercetta una conversazione:
A un angolo un partigiano azzurro stava quietamente conversando con suo padre. Diceva questi:”Ora resterai per sempre in città, ora che l’avete presa”. Il ragazzo sorrise: “Ma forse non la terremo molto, papà”. L’uomo gaped. “Che cosa? Ma allora perché l’avete presa?” Il ragazzo sorrise e sventolò una mano. “No, guarda, tu ti sbagli, tu non sei al corrente”, insisté il padre: “io ho sentito il contrario. Ho sentito che la terrete per sempre, che non ve ne cacceranno mai più…[…]”
Che ve ne pare, di questo dialoghetto?
Io lo trovo stentato e, francamente, attaccato con lo scotch. (Oltre che poco realista: Johnny dovrebbe camminare in tondo per un paio di minuti per assistere a tutto il dialogo tra padre e figlio).
Ma forse io sono prevenuto, perché la stessa scena, nella prima stesura, occupa tre pagine. E il “partigiano azzurro” è Johnny stesso, che va a trovare i genitori. È un anno e mezzo che non si vedono: nel frattempo hanno adottato un cane (“Da un angolo un cagnetto balzò e latrò, ma una volta sola, poi rinculò e sedette, riconoscendo il sangue”. E il cagnetto pugnalò il cuore di Johnny […])
Johnny è un piccolo Ulisse, che torna a casa solo per una cena furtiva: ha paura delle spie e non vuole compromettere padre e madre. Ma uno sguardo a quel “cagnetto” gli basta per capire l’angoscia dei genitori, le loro “lunghe desolate sere”. Si siede a tavola, e mentre spiega al padre l’assurdità strategica della presa di Alba (“non dirlo in giro. Ma sarò contento se ci saremo ancora fra quindici giorni”), comincia ad accarezzare il cane. (“Sarebbe diventato uno splendido compagno, nei giorni di dopo”). Alla fine della cena (“stranamente, anche il cibo sapeva di borghese”) Johnny accetta qualche vestito, un po’ di soldi e riparte. Ma per un attimo, un attimo soltanto, ha rimpianto la sua famiglia, ha accarezzato un cane.
È una scena struggente, che spiega meglio di ogni altra le emozioni e le paure della città ‘temporaneamente’ liberata, e dei liberatori che sanno di essere soltanto di passaggio. Per quale motivo filologico dobbiamo privarcene? È plausibile che Johnny, nato e cresciuto ad Alba, resti per una ventina di giorni in città senza mai andare a trovare i genitori? Se Fenoglio decise, nella seconda stesura, di tagliare una pagina così, fu il primo a non trovare il risultato soddisfacente: tanto che alla fine mandò tutto a monte uccidendo Johnny al termine della Primavera. Può darsi che ci siano, nella seconda stesura, pagine più riuscite: ma basterebbe questo incontro coi genitori a far pendere la bilancia a favore della prima. Sempre a mio parere, naturalmente.
No, non solo mio. Quando qualche anno fa Guido Chiesa girò il suo Partigiano Johnny, un film coraggioso passato nell’indifferenza quasi generale (e sì che valeva una mezza dozzina di Dreamers), non si volle privare di una scena come quella del colloquio col padre. Chiesa e il suo sceneggiatore conoscevano molto bene Fenoglio, e avevano deciso espressamente di basarsi sulla prima stesura. (E se lo dico, è perché lo so: mi sono fatto un viaggio fino a Correggio per chiederlo a Chiesa di persona, che era venuto a presentare il film). Una scelta tutt’altro che scontata, visto che la prima stesura ormai è scomparsa dagli scaffali delle librerie. Eppure, sarà una coincidenza, ma chi ama Johnny di solito lo ha letto anche in quella versione. Che è quella, ricordiamo, che non trovate nell’edizione di Repubblica.
Termina qui la storia del Partigiano Johnny, uno dei migliori romanzi italiani del Novecento, e forse in assoluto il più sfortunato. Colpa di un Autore poco fiducioso nei suoi mezzi, di consulenti editoriali non molto coraggiosi, di studiosi attentissimi al dettaglio a scapito forse dell’effetto d’insieme. Ma alla fine tutte queste negligenze sono a spese dei lettori: noi. E dire che siamo proprio noi lettori ad aver capito Johnny meglio di tutti: malgrado le lacune della seconda stesura, malgrado gli anglismi astrusi (che nessun curatore si è ancora preso la briga di tradurre in nota). Siamo noi che, malgrado tutto, continuiamo a leggerlo, e comprarlo, e in trent’anni lo abbiamo trasformato in un long-seller. Siamo noi che ci meriteremmo di più: un’edizione basata il più possibile sulla prima stesura, e integrata con la versione originale di Primavera di Bellezza: saranno certo meno epiche, ma le avventure di Johnny sotto l’esercito del Regno sono fondamentali per farci capire e amare il personaggio. Possibile che nessun ricercatore (e in Italia ce ne sono ancora parecchi, pagati dallo Stato) voglia provarci?
Nel frattempo, a chi non vuole aspettare, consiglio senz’altro di leggersi il libro di Repubblica. Non è la versione migliore, ma è meglio di niente. A dire il vero un’alternativa c’è: cercare in biblioteca l’edizione Corti. Sono cinque struzzi Einaudi, bianchi, con sobrie righe arancioni. Il Volume Primo è in tre tomi: il secondo contiene due versioni di Primavera di Bellezza; il terzo le due stesure del Partigiano. E a quel punto potete farvi da soli la vostra versione preferita. Non spaventatevi per l’inglese, e fidatevi: Fenoglio purtroppo non lo sapeva, ma era un grande scrittore. Uno dei più grandi del Novecento (sarebbe a dire, di sempre).
(Un grazie di cuore alla biblioteca pubblica Defarge)
giovedì 23 ottobre 2003
ho incolpato Dante Isella di aver messo insieme Il partigiano nella versione del 1968, mentre egli è il curatore della versione del 1994. Che comunque a me non piace, ma caspita, 26 anni di differenza.
Adesso correggo il post. Mi scuso con tutti.
Può darsi che, con la Repubblica di ieri, abbiate acquistato Il Partigiano Johnny, di Beppe Fenoglio.
Tutto sommato, avete fatto bene. È uno dei romanzi italiani più belli e interessanti del Novecento, come a dire, di sempre. Oltre a essere un documento tutt’altro che elegiaco sulla guerra partigiana.
Ma è lo stesso un peccato. Perché? Perché il Partigiano Johnny non è un vero romanzo. E comunque quello che avete acquistato per quattro euro e novanta non è il vero Partigiano Johnny. Anche se è senz’altro meglio di niente. Vi hanno fregato. Ma rilassatevi: non siete i primi.
Questa è una storia complessa, e probabilmente non sono io il più indicato a raccontarla: se qualcuno volesse farlo al posto mio, prego. È la storia di un grande scrittore che di mestiere esportava vermouth, ex partigiano nelle Langhe, con un piccolo e fatale difetto: scarsa fiducia nella propria scrittura. Fenoglio era convinto di essere stato un buon partigiano e un mediocre scrittore (“di quart’ordine”, scrive), e aveva forse una fiducia eccessiva nei consigli degli editor.
La filippica nei confronti degli Editor ve la risparmio: è un mestiere molto più ingrato di quanto non si pensi, e forse anche un capolavoro di Fenoglio, dattiloscritto e impilato su una scrivania affollata, correva il rischio di perdersi per sempre. Tutto sommato a Fenoglio andò bene: trovò editor che credettero in lui, e lo pubblicarono. Se la posta in gioco è di essere pubblicato, ed esser letto, non c’è nulla di male a scendere a compromessi col mercato, coi gusti del tempo, e anche con le idiosincrasie di un paio di consulenti. Ma c’è un limite. Non si può chiedere a Melville di togliere il capitano Achab per sfoltire Moby Dick: non si può chiedere ad Alessandro Manzoni di aggiungere una scena di sesso tra Renzo e la monaca di Monza.
Nel 1957 Fenoglio ha in mente un romanzo-fiume su un ragazzo piemontese (Johnny) che entra nell’esercito poco prima della caduta di Mussolini, torna avventurosamente a casa dopo l’8 settembre, si imbosca e partecipa quindi alla guerra partigiana. Il romanzo, probabilmente, è già scritto: ma non è ancora ‘presentabile’ a un editore, perché Fenoglio, con la scarsa autostima che lo contraddistingue, lo ha scritto per sé, in una lingua a lui solo comprensibile, mista d’italiano e uno strano inglese elisabettiano (Fenoglio era appassionato di letteratura inglese, ma non visitò mai l’Inghilterra).
Così almeno doveva sembrare a lui: in realtà il cosiddetto ‘Fenglese’ è un impasto un po’ strano, sì, ma tutto sommato leggibile.
Fenoglio ha già pubblicato qualcosa e ha due contatti importanti: Einaudi (l’editor, Calvino, è il suo primo ammiratore) e Garzanti. Stavolta prova con Garzanti. Perché? Possiamo sbizzarrirci di congetture: il romanzo di Fenoglio tratta male i partigiani comunisti, e l’Einaudi è il punto di riferimento della sinistra (ma l’anno prima Calvino è uscito dal PCI dopo i fatti d’Ungheria, e comunque Fenoglio non era stato tenero coi comunisti nemmeno nei racconti pubblicati da Einaudi fin dal ’52). Può darsi che Fenoglio temesse l’amore di Calvino per i romanzi brevi, semplici, geometrici, (tanto che ne scriverà uno che sembra fatto apposta per piacergli, e infatti gli piacerà moltissimo: Una questione privata). Sia come sia, Fenoglio bussa a Garzanti con questa idea del romanzo-fiume (e forse anche col primo dattiloscritto). Lo riceve l’editor Pietro Citati, che gli propone di… tagliare due terzi della storia. Far morire il protagonista poco dopo l’otto settembre. Cancellare insomma tutto il nucleo centrale del romanzo: la guerra partigiana. Il che equivale, a mio modesto parere, a chiedere a Melville di togliere il capitano Achab, o peggio.
Fenoglio accetta. In fondo, chissà, Citati ha ragione: il libro è troppo lungo, e i capitoli sui partigiani troppo controversi. Chi è lui per sostenere il contrario? Solo l’agente commerciale di un’azienda vinicola, con un hobby per la scrittura. Così spezza il romanzo in due tronconi, scrive un capitoletto in più (piuttosto raccogliticcio) in cui il protagonista, Johnny, muore nel primo conflitto a fuoco coi tedeschi. Non solo: sempre su consiglio di Citati sfronda anche i primissimi capitoli, in cui Johnny è ancora un liceale di belle speranze che marcia nel Guf, odia Mussolini, ma non vede l’ora di partir soldato perché i suoi amici sono già tutti via. L’esile risultato è il romanzo Primavera di bellezza. Con la sua uscita, per Garzanti, nel 1959, Fenoglio può dire addio al romanzo-fiume, amputato e privato del protagonista. Dalle pagine del canovaccio continuerà a estrarre spunti per racconti e romanzi, convinto che il canovaccio in sé sia una cosa impresentabile, da scrittore di quart’ordine. Meno male che qualche editor ha avuto fiducia in lui, e gli ha dato dei buoni consigli…
Fenoglio muore quattro anni dopo, troppo presto (quaranta o quarantun anni). Ora il suo materiale non è più in pasto agli editor, ma a un’altra razza di lettori che si rivelerà altrettanto miope e pasticciona: i filologi. I primi che riescono a mettere il naso nei suoi cassetti si rendono conto subito di aver tra le mani un capolavoro, scritto in due stesure: senza perdere troppo tempo, l'Einaudi mette insieme una versione abbastanza coerente del testo e la pubblica nel 1968, col titolo inventato Il partigiano Johnny. Non dico che sia stato un errore, nel 1968. Ma… [continua domani]
martedì 21 ottobre 2003
Redshift: (It. “spostamento sul rosso”: “l’effetto Doppler ottico è utilizzato in astronomia nello studio di stelle binarie spettroscopiche e nella determinazione della velocità radiale di corpi celesti e di porzioni di materia cosmica, mediante la misurazione dello spostamento verso il rosso (red shift) delle righe dello spettro da questi emesso”. È una prova empirica dell’espansione dell’universo, forse).
È anche una bella canzone dei Lomas:
Ero piccolo e ho chiesto al mio parroco
lumi sull’origine dell’universo:
sapeva tutto! Era solo incerto
sulla data esatta,
e che l’ha fatto Dio,
che era tutto suo,
e neanche un po’ mio.
E anche un po’ dell’aldilà…
Ma ho chiesto a un comunista e m’ha detto: “Basta!
L’universo è sempre esistito,
i pianeti che girano sono di tutti,
la teologia è soltanto un mito,
i pianeti in cui vivono tutti i popoli della galassia
senza la gravità e privi di attrito,
infiniti operai dello spazio infinito…”
Redshift! E la tua vita si sposta sul rosso!
È il cosmo che resta infinito,
mentre tu muori senza averlo capito!
Redshift! Redshift!
[coro:] "Basta!
L’universo è sempre esistito,
i pianeti che girano sono di tutti!
La teologia è soltanto un mito,
E… tutti i popoli che girano in tutti i pianeti della galassia
Senza la gravità e privi di attrito,
infiniti operai dello spazio infinito…"
Telescopi giganti per scrutare le vicissitudini
di un universo esplorato coi razzi,
ma i misteri del cosmo creano imbarazzi…
Redshift!
Redshift! E la tua vita si sposta sul rosso!
È il cosmo che resta infinito,
mentre tu muori senza averlo capito, vai in Redshift! Redshift!
[più piano, adesso:]
Essere umano che conquisti tutto,
mentre ogni cosa si allontana da te
Ci vuoi spiegare i segreti del cosmo,
ma forse ogni cosa si spiega da sola,
si spiega da sé:
l’universo ti vede passare
per pochi istanti,
tu cerchi un motivo,
e forse non c’è.
In questo mondo tutto è già di qualcuno,
non hai niente se non puoi pagare
se non lo puoi difendere armato…
attorno al mondo redshift totale,
(perché perdo sempre, se non sono più forte di te?)
allontanatevi, stelle e pianeti, da me.
Astronauta, hai conquistato la luna,
ci hai piantato sopra la tua bandiera:
ce ne son troppe già sulla terra,
in un mondo che ti priva di tutto, bandiere
e di guerra in posti lontani,
e saran tuoi domani, perché
tu invadi lo spazio, però
stai lontano da me
[ancora più piano, repeat and fade:]
La tua bandiera non piantarla mai su un pianeta,
troppe nel mondo ce n’è:
Io non ho bandiere da piantare,
ma un universo da guardare,
che si allontana ogni giorno più da me...
(Redshift, Lomas, 1998. Dedicata al taikonauta Yang Liwei: La tua bandiera,
non piantarla mai su un pianeta,
troppe nel mondo ce n’è:
Io non ho bandiere da piantare,
ma un universo da guardare,
che si allontana ogni giorno più da me).
lunedì 20 ottobre 2003
Continua da ieri e va sul pesante, per cui, siete avvertiti, ok?
...Chissà che fine avrà fatto. Magari oggi legge il Foglio, che funziona più o meno come il Drive In: abolita qualsiasi pretesa didattica nei confronti del lettore, il Foglio pratica la volgarità a oltranza.
E anche in questo caso, non sto parlando di contenuti (sebbene parlare di seghe sia di una volgarità difficilmente superabile), ma del modo in cui i giornalisti del Foglio veicolano i loro messaggi. Si sente, a leggere il Foglio, una gran mancanza delle risate finte alla Benny Hill: in mancanza delle quali le battutine di Ferrara e compagni si rivelano fredde, talvolta gelide.
Per il resto, gli sketch dei comini del Foglio sono un susseguirsi ininterrotto di tormentoni che risparmiano ai lettori quantità considerevoli di energia mentale. Si faccia caso a come si trattano gli avversari politici o giornalistici: ogni bersaglio ha il suo soprannome, il suo tratto distintivo. Siccome Michele Serra fu uno degli autori del programma di Morandi, da diversi mesi sul Foglio Serra è “chi fece mettere in mutande Gianni Morandi in prima serata tv”: se osa lamentarsi di qualcosa, la reazione di un Marcenaro o di un Rocca è lo stesso identico tormentone: “parla quello che ha messo in mutande Morandi" (risate finte). Giorgio Bocca, personaggio di una complessità affascinante, (fascista, partigiano, azionista, garantista negli anni di piombo, leghista nei primi Novanta, ora antiberlusconiano…), per le macchiette del Foglio è, molto semplicemente, un ubriacone antisemita. Per Enzo Biagi si parla, mi pare, di demenza senile (risate finte); a Zucconi non si perdona un errore (veniale) di traduzione da… otto mesi? (risate); i giornalisti di Repubblica in generale sono tutti disonesti perché una volta Lupis si è inventato un reportage (“del resto, si sa, è il giornale di Lupis”; risate). Colombo, Tabucchi… ognuno si merita la sua brava risatina.
E i blog?
I blog sono una seccatura perché nessuno li conosce, e quindi non si può estrarne nessun dato biografico su cui costruire un tormentone. Niente cognome, niente biografia, niente ritornello. Un bel guaio.
Ma la soluzione, come s’è visto, è molto semplice ed economica: i bloggatori sono tutti “segaioli” (Soncini), “pipparoli” (Rocca). Risate. Non ridi? Te la prendi? È perché ti rode. Vorresti anche tu essere così ‘ironico’, ma come si fa a essere più ‘ironici’ di così? Anche l’oltranza ha un limite. Mentre se rimani appena un filo meno volg… meno ‘ironico’, eccoti trasformato in un bacchettone, segaiolo comunque. Vedete, è un espediente molto volgare, ma non lascia scampo.
Del resto, si sa, è gente che lo fa per mestiere. Non solo: è gente che sa fare il suo mestiere, così come lo sapeva fare (e lo fa) Antonio Ricci.
Diverso è il discorso per i lettori. Sono loro che spaventano.
Esattamente come mi spaventava il compagno di banco ipnotizzato, coatto a ripetere ritornelli di cui magari ignorava il doppio senso, così mi spaventa il frequentatore di Rolli che continua a ripetere, inebetito, “Morandi, mutande, seghe”; “Giorgio Bocca, vino”, eccetera. Non c’è niente di male a comporre ritornelli di mestiere: ma a vivere dei ritornelli altrui, a trasformarli in mantra, secondo me sì, c’è male, è un segno di nevrosi bella e buona. E mi chiedo: perché? Perché c’è gente che ha bisogno di ripetere, quasi quotidianamente, che Repubblica è giornale brutto e Foglio è giornale intelligente? Perché c’è gente che, dopo mesi spesi a fare propaganda gratis al Foglio, si sente dare pubblicamente della segaiola da una redattrice, e commossa ringrazia per l’ironia e per l’intelligenza?
Perché? Non lo so, e forse non sono fatti miei. Forse mi fido troppo di quel perturbante di Freud, che sulla sessualità continua avere idee molto più aperte delle nostre. Per lui tra pulsioni sessuali e pulsioni di morte c’è una bella differenza. E la coazione a ripetere è tipica soltanto di quest’ultima. Le persone affette da fissazioni, costrette a ricorrere a mantra per guadagnare una parvenza di serenità, sono in qualche modo abitati da una pulsione demoniaca e autodistruttiva. Altro che seghe (che fanno bene alla prostata, pare): qui stiamo parlando di nevrosi, di morte, di quel sapore amaro che ci lasciava il Drive In alla sigla finale, quando gli spettatori fuggivano nella nebbia e invano D’Angelo li supplicava di restare.
Fuggire, invece, bisogna. Evadere dai ritornelli, dagli stereotipi, dalle idee ricevute dall’alto. Non m’interessa che idee abbiate, se siate di sinistra o di destra o di che; il problema non sono i contenuti: il problema sono i ritornelli. Il Foglio sarebbe profondamente volgare anche se fosse di sinistra (e per qualcuno magari lo è: tanto peggio per la sinistra).
Questo, nella mia modesta opinione, è il modo in cui il Foglio propone “temi, personaggi, modi espressivi”: alla stessa maniera in cui li proponeva Ricci al Drive In. Cambia il target: (il famoso “network sociale e politico”), ma la formula non cambia: i personaggi di questo network (politici, giornalisti) diventano immediatamente macchiette comiche. E anche noi, se ci capita di essere occasionale oggetto di dibattito, lo diventiamo.
E allora perché continuare a parlarne? Ma proprio per il motivo che ha detto Squonk: Viral marketing. Che funziona anche in senso negativo, anzi, secondo me funziona meglio. Prendete il cinema: non so voi, ma io mi fido molto di più di un amico a cui non è piaciuto un film che di uno che si sdilinquisce in commenti entusiasti.
Quando Camillo annota: Tutti gli altri blog, invece, parlano di lei. Insomma i pipparoli ci sono cascati. E la signorina qui sopra ha vinto, si lascia sfuggire il punto fondamentale: che tutti i pipparoli ne parlano, sì, ma male. E qui non siamo in tv o sui giornali, non funziona la logica del “purché se ne parli”. Qui le bocciature contano molto più dei complimenti, e Google è un giudice implacabile, che registra gli uni e soprattutto le altre. (E inesorabilmente continua a registrare anche le belle e le pessime figure di Camillo).
A questo punto ognuno è libero di fare quel che vuole e quel che può. Io, nel mio piccolo, posso contribuire a far girare una voce: il Foglio è un giornale volgare, che abbassa il dibattito politico a livelli sotto i quali è impossibile andare. E lo ripeto: il Foglio è un giornale volgare, che abbassa il dibattito politico a livelli sotto i quali è impossibile andare. E mi fermo: non voglio che diventi un mantra. Ma se siete d’accordo, siete pregati di far girare la voce. È Viral Marketing, fa bene all’economia. Saluti.
A questo punto interviene però 4 Banalitäten:
Giornali come Il Foglio non si pesano con i dati di vendita, ma in base alla loro capacità di proporre temi, personaggi, modi espressivi, di influire sui nodi che contano di un network sociale o politico. Io giudico osservando un piccolo spicchio di blogosfera (scusa Carlo), ma in questo spicchio Il Foglio ha un potere di attirare attenzione enorme. Di sicuro inversamente proporzionale alle vendite. Su questo vorrei che si riflettesse, piuttosto che sulle solite tirate sul giornale a finanziamento pubblico, elemento che nello specifico non aiuta a spiegare nulla.
Va bene, riflettiamoci su.
C’è questa idea diffusa che il Foglio, quotidiano che in linea generale non vende tanto, sia comunque un giornale intelligente per la classe dirigente; a cui propone “temi, personaggi, modi espressivi”.
Può anche darsi, chissà, del resto non mi hanno mai ammesso, in quella classe lì. E stasera, sera di una grigia domenica di ottobre, più che di network sociale e politico mi viene da pensare al Drive In. Ve lo ricordate il Drive In?
Read-In
Il Drive In di Antonio Ricci è senz’altro una delle trasmissioni che hanno cambiato la televisione italiana, e che maggiormente hanno contribuito a quello stile Mediaset che poi si è imposto anche al servizio pubblico. Ma si trattasse solo di questo. Il Drive In, alla mia generazione, ha fatto molto di più. Ha cambiato la nostra idea del corpo umano (del corpo umano femminile, per la precisione), e ha occupato forse irreversibilmente alcune sinapsi cerebrali, per cui non riusciremo mai a recitare a memoria il Passero Solitario, a causa dei neuroni impegnati per sempre a memorizzare “ce l’ho qui la brioche”, “e dallo sdegno mi ribalto”, “ma lo sa che lei è proprio un bel volpino”, eccetera.
Le ragioni di un successo così esteso e profondo? Ricci, negli anni Ottanta, ebbe il coraggio di essere primitivo; di praticare la volgarità in maniera sistematica, consapevole. Decenni di televisione didattica furono spazzati via nel giro di poche stagioni televisive.
Quando parlo di volgarità non mi riferisco soltanto ai contenuti (oggi siamo caduti molto più in basso, se è per questo), ma alla formula della comicità. Come ci faceva ridere, Ricci? Coi tormentoni. Nessuna novità: i tormentoni sono una delle forme primitive del comico. Ma nessuno in televisione le aveva mai adoperate con tanta oltranza. Così come le ballerine del Drive In dovevano eccitarci dilatando irrealisticamente le loro forme, allo stesso modo i comici del Drive In si proponevano di divertirci soltanto mediante la reiterazione dei tormentoni, sempre gli stessi, ripetuti quattro, cinque volte nello stesso sketch, con relativo picco di risate finte. E il bello è che funzionava: sia il silicone del corpo di ballo, sia i tormentoni, erano espedienti rozzi, ma irresistibili. Il Drive In non aveva rivali: non si poteva essere più scemi, più siliconati, e, soprattutto, più ripetitivi.
In seguito mi sono chiesto spesso perché una qualsiasi frase (possibilmente cretina, ma non è indispensabile) se ripetuta con insistenza diventi un veicolo di risate. Credo che abbia a che fare con la naturale tendenza al risparmio mentale, per cui qualsiasi cosa già nota, già sentita, ci rassicura: una sensazione naturalmente piacevole. Questo secondo Freud, che però aggiunge:
Intendo dire che nell’inconscio psichico è riconoscibile il predominio di una coazione a ripetere che procede dai moti pulsionali: questa coazione dipende probabilmente dalla natura più intima delle pulsioni stesse, è abbastanza forte da imporsi a dispetto del principio di piacere, fornisce a determinati aspetti della vita psichica un carattere demoniaco, si esprime ancora assai chiaramente negli impulsi dei bambini in tenera età e domina una parte di ciò che avviene durante il trattamento analitico dei nevrotici. (Il Perturbante)
Pulsionali, demoniaci, i tormentoni: abbondano tra bambini in tenera età e nevrotici in cura. Il Drive In ci faceva tornare bambini (del resto eravamo bambini), ma ci trasformava anche in piccoli nevrotici. E questo si poteva già verificare il lunedì mattina, quando metà della classe era impegnata a recitare a memoria gli stessi tormentoni, che cambiavano soltanto ogni sei mesi. Con un notevole risparmio di energia mentale, che al lunedì tra i banchi di scuola è sempre scarsina.
Però Zuzzurro e Gaspare erano davvero divertenti. Primitivi, volgari, ma divertenti. Invece, il nostro compagno che ripeteva ossessivamente “ce l’ho qui la brioche”, costretto a ricorrere a un ritornello per simulare un senso dell’umorismo di cui era totalmente sprovvisto, non faceva più ridere: dopo un poco ispirava sgomento. Era già un apprendista nevrotico.
Chissà che fine avrà fatto. Magari oggi legge il Foglio, che funziona più o meno come il... (domani, domani...)
venerdì 17 ottobre 2003
giovedì 16 ottobre 2003
la storia della donna sub
[zop la iniziò...]
settima parte
...E perché mai non potrebbe finire così?
Invece ti sbagli, è proprio andata a finire così!
E se la cosa ti sembra che non abbia senso, forse è vero, come è vero che nella vita tutto scorre senza alcun senso, il più delle volte. E anche questo racconto è un po’ come una vita. Si sa che è cominciato e non si capisce nemmeno bene perché è cominciato.
Ma non si sa né come finirà né quando finirà. Può finire da un momento all’altro. Quando meno te lo aspetti ti puoi trovare di fronte a un finale definitivo, alla storia che si è interrotta per sempre. Questo della donna sub non è infatti il solito racconto che ha un inizio, una trama e un finale tradizionali e prevedibili. Questa è una storia che si sta scrivendo nel momento in cui la si legge. Come la vita.
Come il mare.
La donna sub, prima di tuffarsi per l’ultima volta, guardava il mare e respirava.
In cuor suo sapeva perfettamente cosa l’avrebbe aspettata quando si sarebbe tuffata, perché l’aveva già fatto mille e mille volte. E mentre si preparava si chiedeva se il fondo del mare esistesse anche quando lei non era immersa. E si rispondeva che doveva esistere di certo! Anche quando non lo poteva vedere con i suoi occhi, illuminato dalla sua torcia.
Al contrario del fondo del mare, la storia della donna sub continua solo se e perché qualcuno la legge o la scrive. E finisce all’improvviso, quando chi la legge e la scrive decide di essere arrivato alla fine.
Qualcuno crede che la storia della donna sub non finisca mai e continui all’infinito.
Altri pensano che solo per i più buoni di noi andrà avanti all’infinito e che solo loro alla fine sapranno la verità.
La maggior parte dei lettori non arriverà mai fino alla fine e a un certo punto si accontenterà di un finale intermedio.
Per cui, alla luce di queste considerazioni, non è molto facile dire se la storia della donna sub sia finita così o meno.
C’è chi dice di sì.
E infatti, tra questi che ne sono convinti, nessuno la vide mai più riemergere e nessuno seppe più niente di lei.
FINE
E la prova che la storia sia effettivamente conclusa e che nessuno ha mai più rivisto la donna sub, l’avrai anche se deciderai di continuare nella lettura.
Come forse farai.
***
Questa è una storia da scrivere oltre che da leggere. Se ti è piaciuta falla germogliare, continuala, contaminala, riscrivila! Scegli un punto in cui inserire la tua continuazione, magari proprio questo, e continuala in poche righe in modo che abbia sempre un finale possibile, ma anche un link che riporti il lettore al capitolo successivo. Per inviare le tue continuazioni: http://zop.splinder.it.
Ma secondo voi, qual è il personaggio più antipatico della storia della letteratura? Le figlie di Lear? Hilary Winshaw? La signorina Rottenmeier?
Vabbè, cambiamo argomento.
Guia e le formiche
(Questo non è un pezzo in difesa dei blog. Non li difendo più, i blog, per quel che pagano. Questo è un pezzo disinteressato e spassionato sulla mancanza di stile e simpatia che caratterizza gli elzeviristi del Foglio. Tutti? Non lo so, chi se ne frega. Colpirne uno per educarne almeno uno. Colpire Guia Soncini).
ANCHE I PIÙ LUCIDI POSSESSORI DI SITO CONTENITORE ALLA FINE RIENTRANO NEL “POPOLO DI SEGAIOLI” ORFANI DI EDITORE.
G. Soncini, “Il Foglio” di ieri.
Segaioli, dunque. Interessante. Segaioli perché, si presume, non fanno sesso con altre persone. O perché non fanno sesso col proprio editore? Ma se uno fa del sesso al di fuori dei suoi rapporti di lavoro e di potere, non vale? È possibile che certa gente scriva perché gli piace, e faccia sesso per lo stesso motivo? Davvero c’è ancora gente così all’antica? E Guia ne è al corrente?
Ma soprattutto:
si rende conto che quella parola lì è proprio brutta, e non si dovrebbe usare; e non si usa, su nessun altro quotidiano al mondo?
Fosse soltanto una parolaccia, si sa. Stronzo, merda, vaffanculo, in determinati contesti stilistici li abbiamo sdoganati. E perché “segaiolo” no? Perché si tratta di qualcosa di più grave.
Un cantante famoso per i suoi testi sboccati e anticonformisti, stavo per dire Vasco Rossi, ma in realtà Georges Brassens, direbbe a questo punto: “la chose ne me gène pas, mais le mot me degoûte”. Confermo: la cosa in sé non mi secca, ma la parola mi disgusta. Non è una parolaccia. È un insulto sessista. Dare del “segaiolo” a una persona che fa qualcosa per i fatti suoi è come dare della “troia” a un’altra persona che fa una cosa perché la pagano: non-si-fa. Non si approfitta dei caratteri sessuali secondari per fare ironia sulla gente, perché è un’ironia di infimo grado che squalifica per primo chi la fa. E tu sei squalificata, Guia, torna negli spogliatoi e vatti a sciacquare la bocca col sapone. C’è qualcosa che non va quando un blog privato deve dare elementari istruzioni di buona educazione a un’elzevirista professionista e stipendiata. Vai, vai, che è lì il tuo posto: lo spogliatoio del ginnasio.
Ma che vi ha preso, a voi altri neoconi? Perché sempre così sboccati? Siete sicuri che sia il taglio anglosassone? Decidete, una volta per tutte, se siete un tabloid o un quotidiano di opinione. Per ora il risultato è un tabloid senza figure, peggio di un’idra senza teste. Roba così non può stare sul mercato, e infatti non ci sta.
Inoltre, io non ho passato otto anni di dura scuola dell’obbligo e un numero imprecisato di relazioni eterosessuali per sentirmi trattare come il primo ragazzino brufoloso. Guia, è ora di dirlo forte e chiaro: il pisellino è mio e me lo gestisco io, e rassicurati, me lo gestisco piuttosto bene. Ma stanne fuori. Devo rammentare che la tua editrice è una signora tanto ammodo?
Quello che non riusciva a capire era la strana, persistente nota di venerazione che puntellava anche l’aneddoto più insignificante e inconsistente: aveva la sensazione che Roddy e Hilary attribuissero davvero reale importanza a ogni gesto e parola di quella gente; che fossero convinti davvero di dominare, come colossi, la scena nazionale, quando invece Phoebe, interrogando a tutto raggio amici, colleghi, pazienti e vicini di casa, non avrebbe ottenuto, al citare di quei nomi, neanche l’ombra di una sia pur minima reazione. (Jonathan Coe, La famiglia Winshaw, 1994).
Riassumendo: non si dice “segaiolo”, non si dice “puttana”, non si squadernano sempre sul giornale gli affari altrui e propri, possibile che te lo debba ricordare un blog.
Anche se il raccontino iniziale è interessante. C’è tutto un mondo intorno:
Scena prima. Lui e Lei sono fidanzati, e lavorano per l’Altro. Il lavoro finisce, il fidanzamento anche, e Lui viene a sapere (buon ultimo, va da sé) che l’Altro gli ha scopato per tutto il tempo la fidanzata. Shit happens, direbbe Lui – se fosse persona di buon senso – scrollando le spalle, considerato anche che i fidanzamento è finito e che poteva andar peggio, poteva essere un estraneo da cui ragionevolmente temere di essersi presi delle malattie, in fondo tutto è restato nel giro […]
Il grassetto è mio. Il grassetto è importante. Il quadretto descrive l’eterna lotta di classe: Lui, Lei, e il Capufficio. Come vada a finire, è noto dall’inizio dei tempi, e dovremmo accettarlo, se fossimo persone di buon senso. Il buon senso consiste insomma nell’aggrapparsi svelta al pezzo di carne più altolocato a disposizione. E va tutto bene, finché siamo nel giro: giornalisti, pubblicisti, editori. L’importante è tenersi alla larga dagli estranei, fornai, ragionieri, operai edili, brutta gente, che ti passa le malattie.
Naturalmente, quel che accade in quell’ufficio è intrinsecamente più interessante di qualsiasi cosa possa avvenire in diecimila tinelli cablati: gente che racconta il proprio lavoro al forno o al cantiere, prova a riassumere le proprie idee, si dà dei consigli, si cerca, si trova: seghe. Quello che è veramente importante è chi ha fatto le corna a chi sull’inserto del Foglio. Quelle corna sono interessanti, le altre no. Perché? Bella domanda.
Ma Guia ha già pronta le risposte:
1) Perché le corna sul Foglio hanno nome e cognome, si “espongono”.
(Sì, ma allora fuori questi nomi e questi cognomi, avanti. Chi ha fatto le corna a chi? Siamo curiosi. Non dovremmo?
E poi, si espongono a cosa? Ai pettegolezzi? La gente come te è ansiosa di sapere un cognome per trovare qualche scheletro nell’armadio: dà per scontato che almeno uno scheletro sia in dotazione a tutti. È il bullismo di Camillo: 'zitto te, non hai neanche la dignità di un cognome, come posso sputtanarti se non so nemmeno chi è il tuo padrone?' La realtà è molto più banale: padroni non ne abbiamo, e i nostri cognomi non hanno nulla d’interessante. Non potete farci un dossier sopra, e vi rode. Siamo sfigati qualunque, siamo fuori dal tuo giro, siamo sporchi, portiamo le malattie. Stanne fuori, Guia).
2) Perché le sue corna “stanno sul mercato”, le nostre no:
E non si capisce perché un giornale non lo facciano, ma uno vero, di carta, con un editore e un prezzo d’acquisto, da mettere sul mercato, confrontarsi con la realtà e poi ne riparliamo.
Guia, ma ci credi davvero? Lo chiami mercato? E credi di starci sopra?
Ma perché non te lo fai tu, un bel giornale? Uno vero, di carta, sul mercato, non di proprietà della moglie del Presidente del Consiglio, non di proprietà della moglie del proprietario della maggior concentrazione editoriale-pubblicitaria italiana; non l’organo di partito del Club Amici di Topolino, che in quanto tale si tiene sul mercato con soldi pubblici, e vende più o meno, scusami la parola, una sega. Fattelo il tuo bel giornale, Guia, e poi ne riparliamo. Sarei proprio curioso.
Cambiando argomento, secondo me il personaggio più antipatico della letteratura mondiale è la signora Mauro, che compare in uno dei più bei racconti di Calvino. È un anziana proprietaria che ha affittato una casa al protagonista, e gli mostra come si tengono lontane le formiche argentine: si cacciano via con la scopa, “così”. Il protagonista, interdetto, scende in paese. Il paese è totalmente invaso da uno sciame di minuscole e invincibili formiche, non c’è veleno che le tenga alla larga, ce n’è una che è appena entrata nell’orecchio del suo bambino.
Quando leggo gente come la Soncini, mi viene una grande inutile rabbia, e il ricordo della Signora Mauro, quel suo stringersi le spalle stizzita e indicare la scopa. È così facile per lei, non è vero?
È gente fatta così: si trova a chiacchierare e pontificare su una scala mobile che va verso l’alto, e lo chiama Libero Mercato. Lo chiamo anch’io così, peccato che la mia scala vada verso il basso, per cui salire mi risulta più faticoso, e senza dubbio dal suo punto di vista io sudo, sbuffo, inciampo, devo sembrarle un maniaco. Ma non sono un maniaco: sono un arrampicatore sociale, esattamente come te. Ma a differenza di te, mi sto facendo un mazzo tanto, io: ragion per cui, porta rispetto, testa bassa, e attenta a dove metti i piedi.
…ma che tutto quello che vedevamo intorno, a cominciare dalla sua persona lì seduta, fosse ròso da formiche più spietate ancora delle nostre; quasi una sorta di termiti africane che distruggevano ogni cosa lasciandone gli involucri, e che di quella casa restasse solo la tappezzeria stinta, il panno quasi polverizzato delle tende, tutto sul punto di crollare in briciole davanti ai nostri occhi. (Italo Calvino, La formica argentina, 1952)
mercoledì 15 ottobre 2003
Il 15 ottobre del 1999 stavo per lasciare la Francia, in un certo senso per sempre, e non avevo ancora comprato un regalo per mio fratello.
Vorrei poter dire: “Non sono bravo coi regali”, ma neppure questo è vero. Dipende dalle persone: ad alcuni so sempre cosa regalare, ad altri no. Con mio fratello c’era uno strisciante conflitto d’interessi. Se gli prendevo un cd che secondo me era bello, era chiaro a entrambi che prima o poi quel cd sarebbe finito in camera mia.
Allora avrei dovuto prendergli un cd che piacesse a lui e non a me, sarebbe a dire, un cd di merda, e non era giusto. Più o meno coi libri era uguale. Salvo qualche colpo di genio o di fortuna, una copia di ERNESTO "CHE" GUEVARA, La guerra di guerriglia, prima edizione Feltrinelli Ue, trovato su una bancarella: sicuro che quello se ne sarebbe rimasto per sempre sui suoi scaffali.
E infatti, eccolo qui.
Più o meno per gli stessi motivi avevo adocchiato da parecchio un cd francese che avrebbe potuto piacergli, se non altro per il pugno chiuso in copertina. (C’era anche una versione di Bandiera Rossa, cantata in italiano, ma pronunciata alla francese, Avancioppoppolo, demenziale). Ma c’era un ma: costava un sacco di franchi, veramente tanti per un cd col pugno chiuso, e probabilmente non li valeva. E magari a lui non sarebbe nemmeno piaciuto. E comunque in città non lo avevano: potevano ordinarlo da Poitiers, ma era troppo tardi. Il 16 partivo. Ed era il 15 ottobre, mezzogiorno, stavo per lasciare la Francia e non avevo nulla da portare a mio fratello.
Troppo giovane per il cognac, troppo vecchio per Asterix. Alla sua età ci sono solo i cd. E l’unico cd che mi veniva in mente era troppo caro e stava a Potiers. Potevo andare a Poitiers: ci avrei messo un pomeriggio intero e avevo ancora i bagagli da fare. La sera avevo una cena d’addio e la mattina la sveglia presto. Mille chilometri al volante non sono uno scherzo, è inutile barare, bisogna essere riposati sul serio.
D’altro canto, era mio fratello. Saltai in macchina e andai a Potiers. Un traffico del diavolo. Tornando, ero sopraffatto dall’assurdità della situazione. Quattro preziose ore di sonno buttate per comprare qualcosa di assolutamente inutile, e probabilmente anche brutto. Gli sarebbe piaciuto, almeno? Sì, gli sarebbe piaciuto, per far piacere a me. Siamo fatti così: ci inganniamo l’un l’altro, ci compriamo tante cose, ci riempiamo mensole e armadi di roba inutile, che nel migliore dei casi ci ricorda qualcuno. E nel peggiore dei casi è solo roba brutta e inutile che non hai mai il coraggio di buttare via.
Sarà capitato anche a voi, di dover prendere decisioni, su un regalo, o su come investire un pomeriggio, e di trovarvi a misurare in minuti e in centesimi l’affetto che vi lega a una persona. È brutto, è triste, ma il giorno è fatto di ventiquattro ore, e nelle vostre tasche ci stanno tot franchi e non di più.
Io lo so come ci si sente in questi casi, ed è per questo che sto scrivendo adesso: vorrei dirvi che capisco, ma che ho scoperto che ne vale sempre la pena. Vale la pena perdere un pomeriggio, vale la pena spendere il doppio o il triplo o il quadruplo o qualsiasi prezzo. Può essere una cretinata, un libro o un cd scemo: può anche essere l’unica cosa che vi verrà in mente, stanotte, quando verranno a dirvi che siete stati cattivi amici, o cattivi padri, o cattivi fratelli. No. Il 15 ottobre del 1999 ho buttato via un pomeriggio prezioso, perché volevo bene a mio fratello. Ho la prova. È proprio qui, nella mensola, sopra il mio letto. Nessuno me lo può portare via.
martedì 14 ottobre 2003
Non so a quanti di voi possa far piacere l’essere informati che la strofa dell’ultimo singolo dei Libertines ha lo stesso giro armonico di un Alleluja liturgico, per essere precisi quello che fa
Passeranno i cieli
e passerà la terra – a – a
la tua parola non passerà
a-a-a-llelùja, allelujà
Dice: come fai a saperlo, abbiamo anche l’orecchio assoluto, adesso?
Vorrei poter rispondere: ho fatto il pianista in un bordello, ma la verità è più sordida: ho suonato la chitarra in chiesa, per diversi anni.
Più che di musica, una scuola di vita. Impari che, tutto sommato, l’importante è il ritmo, la spennata, e che più o meno i giri sono due o tre e sempre gli stessi, la stessa logica del pop. Per esempio, sapete cos’hanno in comune Stand by me, Every breath you take e True Blue? Che sono più o meno la stessa canzone (e si potrebbe continuare a lungo).
Impari anche l’improvvisazione, nel senso inverso a quella virtuosistica del jazz: l’improvvisazione a servizio della comunità. Se nel coro ci sono più voci bianche, si alza la tonalità; si abbassa se i maschi abbondano; poi c’è sempre qualche collega con una menata, che se tu sai un pezzo in mi, lui ti costringe a farlo in re; e quando vogliono cantare una canzone che tu non sai, cosa fai? te la inventi. Fermo restando che il coro ha sempre ragione, e che se stonano la colpa è tua.
Tutte queste cose nella vita ti serviranno: quando sorvolerai centinaia di discussioni riconoscendo d’istinto lo stesso giro armonico ripetuto all’infinito, variato in tonalità maschili e femminili; quando ti chiederanno di suonare a soggetto; quando qualcuno se la prenderà con te perché sta stonando, lui; ti servirà avere avuto la responsabilità di un coro di voci bianche di fronte al Tabernacolo del Santissimo. D’altro canto, può darsi che il riconoscere la stessa canzone in tutte quelle che passano per radio possa rivelarsi un troppo pesante fardello.
Meno male, direte voi, che con gli anni cambiano i suoni, gli arrangiamenti, lo Zeitgeist… sì, beh. L’unica regola generale mi pare la seguente: ogni anno c’è sempre qualcuno che suona peggio dell’anno prima. Ed è incredibile, sul serio, pensare che l’anno prossimo troveremo qualcuno che suona peggio degli Yeahs yeahs yeahs, e lo ascolteremo, e ci piacerà. Pensate soltanto che a Enzo è venuto di accostare Television e Strokes… ma a un concerto dei Television si poteva andare, davvero, per sentire un paio di musicisti dialogare con le loro chitarre; il che nessuno si aspetta dagli Strokes (che sono anzi molto attenti a non voler sembrare mai, nemmeno per sbaglio, dei musicisti).
Si tratta insomma continuare a riascoltare gli stessi giri suonati sempre peggio, all’infinito. E mi piace. Qualcosa non va.
Eppure in me c’è la stoffa di un borghese onesto. Entro nel quarto decennio di vita e sarebbe ora di darmi una qualche aria da intellettuale: un po’ di jazz, qualche aria d’opera, e Philip Glass negli spazi vuoti. E invece mi ostino ad ascoltare gente più giovane di me, che scrive e suona più o meno come avrei scritto e suonato io, se invece di uscire coi ragazzi della parrocchia mi fossi formato in un pub di Leeds. Non è che sono un po’ patetico, per caso?
Quando sono di pessimo umore penso di sì, che sono patetico (anche se non saltello più in mezzo alla stanza), e che il motivo per cui ci piace ascoltare musicisti sempre più mediocri è che ci consolano di essere stati anche noi, tutti noi, mediocri chitarristi, buoni per una cover band di provincia, o al limite per accompagnare un’alleluja.
Quando invece è una bella giornata, penso: chissenefrega. Passeranno i cieli, passerà pure la terra, ma grazie a Dio che esistono cose ripetitive e banali che non stancano mai, anno dopo anno. Una è il rock; un’altra che mi è venuta in mente oggi è il sesso. Anche lì, più o meno i giri li sappiamo: non significa che non si possa – e non si debba – improvvisare, senza virtuosismi inutili ma con abnegazione, e tirarla in lungo più che possiamo. E finché possiamo, beh, alleluja.
lunedì 13 ottobre 2003
Hanno ragione tutti.
È splendidamente girato, Dreamers, magari un po’ fragile, forse troppo fragile, e soprattutto (come già ci avvertiva Momo da Venezia) non è un film politico: un marziano che atterrasse in un cinema senza saper nulla del ’68 francese, non riuscirebbe a capire perché la gente corre impazzita per le strade con la bandiera in mano.
(E si dà il caso che siamo in tanti, noi marziani, e sarebbe ora di portarci rispetto).
L’unico movente suggerito dal film è la rimozione di un funzionario statale (ma guarda un po’) che si era impossessato della Cinématheque e “proiettava qualsiasi cosa”, perché “amava il cinema”. Come a dire: a Parigi nei primi mesi del ’68 la società dello spettacolo è alle prove generali. Poi verranno le barricate e il riflusso, ma soprattutto arriverà l’home video, a realizzare i Sogni dei Sognatori. Poter vedere “qualsiasi cosa”, senza gerarchie di valore (abbasso le gerarchie!); isolarsi in un mondo di citazioni visive, elaborare ogni nostra mossa, ogni nostra espressione, sulla base di un fotogramma o di una battuta. Théo e sua sorella sono i nostri precursori, oggi che per comunicare usiamo i tormentoni di Nanni Moretti e Ghezzi regna sul palinsesto notturno: il vhs è l’immaginazione al potere.
Meno male che Bertolucci, dietro la macchina di presa, è molto più lucido che in conferenza stampa. Non so quanto consapevolmente – e tutto sommato non m’interessa – attira noi guardoni in un tranello: Théo e la sorella si rivelano due mostri viziati e lascivi, il mondo dei sogni è angusto quanto un salotto parigino, puzza di noia e di morte (la cucina puzza anche di bruciato). Abbiamo tutti sognato una rivoluzione così, a diciotto anni (l’idea di partire con la requisizione dei vini pregiati è un classico): finché non ci siamo svegliati in case piene di rifiuti e non c’era niente da mangiare e neanche niente che valesse la pena.
Il sasso alla finestra, allora: forse un po’ banale, come metafora, ma è la cosa che salvo del film. “Che cos’è?” “È la strada che entra nella stanza!” Ci hanno raccontato che, prima del riflusso, “il personale era politico”: ma forse era solo una faccia della medaglia. Théo arriva alla politica (o meglio, alla rivolta) perché il suo personale è angusto, insopportabile, letteralmente asfissiante: la strada lo salva dai suoi fantasmi e forse per un attimo, con la molotov in mano, smette di pensare quale film sta citando. Cosa c’è di politico? Per cosa sta combattendo, Théo? Non lo sa. Lo sappiamo noi: per cambiare aria. Sappiamo anche che quando sarà stanco troverà la sua comoda stanza ad attenderlo, la finestra riparata, un assegno sul comodino, e (con un po’ di pazienza) il fatidico videoregistratore, al posto dell’abat-jour a forma di Mao.
Riprovevole, certo, ma non si sta raccontando anche la nostra storia, qui? Non è capitato anche a noi di uscire in piazza, per mille buoni motivi, ma anche perché il nostro personale si era fatto irrespirabile? Non è stato, Genova per alcuni, l’11 settembre per tanti altri, un provvidenziale sasso alla finestra, un buon pretesto per scendere giù, gridare, picchiare, fare cose, vedere gente? Théo non dà, per tutto il film, l’impressione di essere un ragazzo troppo intelligente, ed è probabilmente destinato a evolversi in una mezzacalza intellettuale come il padre: ma quando la rivoluzione picchia alla sua finestra e lui risponde, non possiamo proprio biasimarlo: non fosse per tutte le volte che anche noi abbiamo detto “Niente sarà come prima” (e sottovoce aggiungevamo: “magari”).
(Poi mi piacerebbe cercare di capire perché la gente rideva, nelle scene di sesso; ma un'altra volta).
venerdì 10 ottobre 2003
(tante scuse, tutte non richieste)
1. I blog non sono un argomento interessante.
Non così interessante, almeno, nel 2003. È crollato il WTO, c’è la guerra infinita, l’inflazione, Fini vuole il voto agli immigrati, Annalena Tonelli è stata uccisa nel Somaliland... Io un po’ mi vergogno.
2. Io vivo offline.
E anche il mio blog è scritto offline, non so se ci avete mai fatto caso. La maggior parte dei tenutori di blog scrive en plein air, può controllare i link al volo, modificare in corsa, tornare ogni tanto a leggersi i commenti. Io scrivo, correggo, e poi mi connetto, una volta al giorno. Mi connetto per aggiornare il blog, scaricare la posta, leggermi i titoli dei giornali e farmi un giro tra i blog. Non ne leggo tantissimi, e probabilmente torno sempre agli stessi. A volte non resisto e commento qualcosa: grave errore. Non si dovrebbero mai scrivere cose d’impulso, e i commenti favoriscono questa cattiva abitudine. Inoltre se scrivi un commento ti aspetti una reazione, per cui i tempi on line si allungano: è un circolo vizioso.
3. Non segnalo mai blog nuovi e interessanti
In linea teorica, se invece di leggere ottusamente gli stessi blog, ogni giorno ne leggessi di nuovi e sconosciuti, senz’altro troverei ottime sorprese. Il guaio è che quando mi connetto non ho voglia di leggere degli sconosciuti: ho voglia di leggere quelli che conosco. Come ogni essere senziente, cerco in ogni modo di risparmiare energia mentale (e come ogni essere umano, alla lunga mi annoio). Forse c’è stata una fase in cui mi piaceva sperimentare link stravaganti, ma col tempo vince sempre la pigrizia. Anche voi, la sera, cosa ordinate? Cambiate aperitivo tutte le sere? No, chiedete il solito. C’è qualcosa di male?
4. Ma intanto la marea monta…
Il fatto che i blog continuino ad aumentare rafforza la mia pigrizia. Qualunque sito pescassi, farei comunque un gesto arbitrario nei confronti delle miriadi di blog interessanti che senz’altro meritavano la mia attenzione. Così resto al bancone e ordino il solito. In fondo lo sapevo che sarebbe finita così: quando tutti avranno un blog, ognuno leggerà il suo e non avrà più attenzione per gli altri. Al massimo lo useremo per comunicare con gli amici, ma difficilmente ce ne faremo di nuovi. È il normale decorso della diffusione di una tecnologia di massa: c’è un periodo epico, in cui alcuni geni (più alcuni pirla che passavano di lì per caso) attirano l’attenzione facendo cose che nel giro di pochi anni tutti diventano in grado di fare. Io mi metto tranquillamente nel novero dei pirla per caso, e sono sicuro che se cominciassi a scrivere oggi otterrei un decimo dell’attenzione che ho ottenuto negli ultimi mesi. Sono stato fortunato, questo è tutto. Ma non ci ho fatto un soldo, anzi ho speso bollette salate, per sentirmi oggi dire che faccio parte di una lobby o una loggia di blog pretenziosi che si citano tra loro. Il che può darsi benissimo: ma di tutte le lobby e le logge che ci sono a questo mondo, santiddio, doveva capitarmi proprio la loggia dei pirla?
5. Granieri ha ragione, tuttavia
Granieri secondo me ha sempre ragione:
quando dice, per esempio, che la blogosfera è un ambiente non competitivo. Il problema è che la blogosfera è occupata da esseri umani, che sono terribilmente competitivi. Forse una blogosfera di calamari sarebbe diversa. Ma siamo umani, e siamo disposti a invidiarci anche le nostre statistiche farlocche. Se non ci fossero, le blogstar, le avrebbero inventate, e infatti è così: le hanno inventate.
Granieri ha ragione quando sostiene che nessuno legge un solo blog. Anche se, adesso che ci penso, io per cinque mesi della mia vita ho fatto proprio questo: ho letto un solo blog, il mio. Non sapevo nemmeno che esistessero altri blog italiani, finché non mi ha scritto la Pizia (e Wile, e Max Boschini). E – credeteci o no – stavo benissimo. Scrivevo solo per me? No. Ma non scrivevo nemmeno per una comunità di lettori e lincatori che, come tutte le comunità, richiede costi di gestione: lincare, ringraziare, rispondere alle mail, rispondere a delle attese nei miei confronti. Scrivevo, esattamente come oggi, per chiarire la mia posizione nei confronti del mondo. Questa è la cosa più importante, per me. Che poi alla lettura del mio quotidiano testamento assistano testimoni, è cosa che indubbiamente fa piacere. Ma di testamenti si tratta, roba scritta da una persona offline che nel frattempo, per quel giorno lì, non ha niente da aggiungere, è come se fosse morta. Non siete d’accordo con me? Neanch’io, spesso, il mattino dopo. Siete d’accordo con me? Troppo tardi, ho cambiato idea. E poi: ma è così importante essere o no d’accordo con me? Chi sono io? Perché una scemenza come “il ’68 ha strasfracellato i coglioni”, se detta da me, diventa una frase importante e scatena addirittura dei dibattiti? Sapete quanta gente ne scrive di cose così, se solo avreste voglia di cercarle. E allora, solo perché io appartengo alla confraternita dei pirla, qualsiasi mio rutto o scoreggia può scatenare il dibattito? E quindi… non ho più il diritto di ruttare e scoreggiare sul mio sito personale?
Prrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr!
6. Paesaggisti e soggettisti
Studiando mi sono reso conto che ci sono due tipi di artisti: quelli che disegnano uno spazio e quelli che disegnano una figura. Li ho chiamati, per comodità, paesaggisti e soggettisti. Dopodiché, mi è sempre più sembrato di voler vivere da soggettista in un mondo di paesaggisti. Quasi tutte le persone che conoscevo ragionavano in termini di spazi, sognavano di gestirne uno. Ho partecipato anche a delle riunioni. Di solito si pensava a una rivista che fosse anche un sito internet, che fosse anche un progetto, che fosse inoltre un ambiente polivalente, un circolo, dove ognuno avrebbe espresso qualcosa, e in un angolo il bar. Questi spazi, il più delle volte, rimanevano mentali: in alcuni casi invece si sono concretizzati, per breve tempo: non perché i paesaggisti non fossero entusiasti e competenti, ma perché in quello spazio ben organizzato nessuno sapeva esattamente cosa venirci a fare, e intanto il bar aveva i suoi costi.
Io sono diverso, non nel senso che sono migliore, anzi: stimo molto i paesaggisti, credo che dovrebbero ereditare la terra. Ma io sono un soggettista. Io faccio la mia cosa: scrivo. Se mi date uno spazio, io sono felice. Ma non potete chiedermi di creare uno spazio per gli altri: so che esistono gli altri, ma creare gli spazi non è il mio mestiere.
Io ho sempre scritto, e quando mi hanno dato un blog, ho continuato a scrivere lì. Fine della storia. Invece ci sono persone che appena arrivate si sono messe a ragionare in termini di spazi: come fare a creare uno spazio confortevole, a mettere insieme il più gran numero di link senza offendere nessuno, eccetera. Gente come Strelnik, o Granieri, si sono comportati da veri paesaggisti: entusiasti e competenti.
Dopodiché, lo spazio non serve a nulla se non ci sono dei soggetti dentro. Questo è quello che faccio io: disegno le figure. Può darsi che lo faccia male, in tal caso scrivetemi e cercherò di emendarmi, ma non chiedetemi i paesaggi, sono un disastro. Lo dico perché lo so.