Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi
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martedì 30 giugno 2009
Il mio Piave
Poi per carità, a chi non piace sentire finalmente qualcuno che dice basta con le solite chiacchiere, le solite polemiche sulle fazioni o sulla leadership, qui servono idee concrete, cominciamo a farci venire delle idee concrete. Piace a tutti un discorso così.
Il punto è che nel breve intervento di Debora Serracchiani al Lingotto, sabato scorso, tutte queste idee concrete ancora non c'erano. Ce n'era una gran voglia, questo sì. Ma al netto di tutti i discorsi contro le chiacchiere e di tutte le polemiche contro i polemici, l'unica proposta un po' nel merito (in qualsiasi merito) era... il superamento dell'articolo 18. Eh? Aspetta, forse ho capito male.
No, perché dopo ha parlato la Melandri e ha ribadito il punto: “l'articolo 18 è un vecchio arnese”. Ah.
Chiedo scusa, è colpa mia. Ogni volta mi dimentico che sto assistendo alla nascita di un partito di centro, centro, centro, centro, centro, trattino sinistra, e mi stupisco di cose che tutti intorno a me daranno per scontate. Articolo 18, ma chi ne parla più. Metti Berlusconi: lui mica ne parla. Anche perché... come andò a finire quando provò ad abrogarlo? Fammi ricordare.
Comunque è un fatto che non ne parli più. Lui è ossessionato dalla comunicazione, e non ha tutti i torti: la crisi è sistemica, l'unico fattore che si può sperare di correggere è quello emotivo. Forse sarebbe arrivato alla stessa conclusione anche se non controllasse cinque emittenze nazionali e non avesse fondato il suo impero sullo spaccio di emozioni – in ogni caso la strategia ha un senso. Gli italiani devono avere la sensazione che tutto finirà per il meglio. Figurati se in un frangente del genere si mette a riparlare di licenziamenti più facili. Anzi, guai a chi ne parla.
Così va a finire che ne parla la Melandri. Giusto. In fondo, se siamo un partito di centro, centro, centro, centro, centro, trattino sinistra, il populista Berlusconi è allo stesso tempo alla nostra destra e... alla nostra sinistra. Noi invece inseguiamo il centro. Chi ci sia al centro di così interessante non si è mai capito: forse qualche industriale che non ha ancora delocalizzato in Romania. Ecco, forse lui se sente la Melandri dire che “l'articolo 18 è un vecchio arnese”, potrebbe considerare l'idea di votare per noi. Nel frattempo i suoi operai, i dipendenti con vent'anni di contributi e ancora più di dieci anni prima della pensione, il ceto medio nerbo della nazione, prende paura e vota Lega. O Berlusconi, che è più rassicurante. Poi la Melandri verrà a spiegarci che è colpa nostra, dovevamo insistere un po' di più verso il centro, centro, centro, centro, centro, trattino centro.
Io – che a suo tempo feci la mia modestissima barricata – so benissimo che l'articolo 18 non è la cura a tutti i mali. So che viene già disatteso dai fatti da migliaia di ditte che si scorporano appena superano i 14 dipendenti. E anche nel culmine dello scontro del 2002 non l'ho mai considerato molto di più che una bandiera. Però anche le bandiere hanno una loro importanza – quelle che funzionano. L'articolo 18 ha funzionato. Altroché se ha funzionato.
All'indomani della vittoria di Berlusconi nel 2001, con l'eco delle sirene di Genova ancora forte e chiaro nelle orecchie di molti, Sergio Cofferati divenne il leader della sinistra semplicemente indicando una linea, un fronte, un Piave, e promettendoci che Berlusconi non sarebbe passato. Quel Piave fu l'articolo 18, e Berlusconi non passò. Lo ricacciammo indietro, il 23 marzo 2002, qualcuno se ne ricorda? Roma invasa dai manifestanti convocati da un solo sindacato, e Marco Biagi era appena stato ucciso. Così si fa opposizione, prendete nota: si indica un punto sulla mappa, ci si raccoglie e non si cede fino alla fine. L'articolo 18 non fu modificato. Tremonti non ne parla più da allora. (Adesso parla solo di vegole, vegole, vegole, è diventato un maniaco delle regole: chissà se tra queste include lo Statuto dei Lavoratori).
Ma adesso lo vuole modificare il PD. Pare che sia l'unica idea nuova che la Serracchiani aveva pronta da portarsi a Torino. Pare che l'articolo 18 sia “un vecchio arnese”. Ma insomma, quelli che andarono a Roma il 23 marzo non avevano capito niente? Oppure hanno cambiato idea? Più semplicemente hanno smesso o smetteranno di votare PD. Ma siete sicuri che i loro voti non vi servano? Quante migliaia di voti intendete bruciare per conquistare quello della Marcegaglia?
No, scusate, lo so benissimo che non ragionate in termini elettorali. Ci mancherebbe altro. È proprio per questo che, mentre state all'opposizione, proponete di rendere i vostri elettori un po' più licenziabili. La maggioranza se ne guarda bene, ma se gli allungate una bozza Ichino, è probabile che la voterà. Senza dare troppa pubblicità alla cosa (la Melandri, invece, scommetto, sogna già i manifesti: Licenziamenti più facili grazie al PD! Grazie, PD!)
Ripeto, io non credo nella sacralità dell'Art. 18. Ma ne faccio una questione di comunicazione. Ci sono migliaia di persone che per quell'Articolo hanno combattuto: non si meritano qualche spiegazione? Nel 2002 si rifiutavano di credere nell'equazione “più licenziamenti = più opportunità di lavoro”: erano così stupidi? Il loro intuitivo scetticismo nei confronti dei dogmi del libero mercato non meriterebbe di essere un po' rivalutato, alla luce di quello che è successo più tardi in tutto il mondo? Ma sul serio intendete mandare gente come la Melandri a spiegare che si sono sbagliati, hanno fatto le barricate per salvare un vecchio arnese che va tolto di mezzo, e che se Berlusconi non vuole più farlo tocca a noi?
Io non escludo che tecnicamente abbiate ragione. So che lo Statuto dei Lavoratori è il prodotto di un'era di relativa espansione economica in cui i rapporti di forza erano molto diversi. Può darsi che quel Piave debba cedere prima o poi. Non ne farò un dramma, crollato un fronte si ripiega e se ne fa un altro. Ne faccio un problema di comunicazione. Basterebbe non insistere troppo sull'articolo 18, sui termini “abrogare”, ma anche “superare”. Dite semplicemente che volete rendere il mercato del lavoro più equo per le giovani generazioni, sentite che suona già molto meglio?
E tecnicamente si può fare senza strombazzare al mondo intero che stiamo modificando l'art. 18. Peraltro, non è detto che si debba realmente modificare. Persino la bozza Ichino mantiene alcuni paletti: non sarebbero ammessi licenziamenti “discriminatori” o per “mero capriccio”. Non sarà il Piave, ma non è ancora l'Adige: si ridefinisce il concetto di giusta causa, tutto qui. Se ne può discutere, ma io quando ho letto che la Melandri riteneva l'art. 18 un “vecchio arnese” non ho pensato “ah, intende sollecitare un dibattito sul concetto di giusta causa”. No, io pensavo che volesse consegnare le chiavi del partito ai poveri piccoli industriali che in mancanza di un'idea nuova (da vent'anni) e di sovvenzioni (dopo vent'anni) vorrebbero licenziare tutti a luglio per riassumerli a settembre con un contratto a progetto.
E siamo al punto di partenza: a tutti piace sentirsi dire basta chiacchiere, servono idee. Ma anche le chiacchiere hanno la loro importanza. Chiacchierare sull'articolo 18, come se fosse un argomento qualsiasi, può risultare controproducente. Non è un argomento qualsiasi. È la nostra Dunkerque, il nostro Forte Alamo. Ci vuole rispetto.
lunedì 29 giugno 2009
Don't you black or white me
“A questo punto perché non dite alla gente che sono un alieno che viene da Marte. Dite loro che mangio polli vivi e faccio danze vudù a mezzanotte. Crederanno in tutto quello che dite, perché siete giornalisti. Ma se io, Michael Jackson, stessi dicendo “Sono un alieno che viene da Marte e mangio polli crudi e faccio danze vudù a mezzanotte”, la gente direbbe, “Ehi, quel Micheal Jackson è fuori di testa. Completamente fuso. Non puoi credere a una sola parola di quel che dice”.
“Vorrei che non ci fosse nero o bianco, vorrei che non ci fossero regole” (Prince, Controversy)
Il cinismo, per carità, piace anche a me. Non starei altrimenti così tanto tempo su internet. E ben venga il cinico Internet, soprattutto in situazioni del genere, quando tv e giornali pretendono di commuoverti con coccodrilli polverosi estratti in fretta e furia dal cassetto.
E tuttavia c'è qualcosa di inquietante nella rapidità con cui ci siamo tutti messi a scherzare sulla morte di Micheal Jackson. Certo, era un modo per reagire all'overdose di melassa dei media e dei fan, eppure finora qualsiasi altra celebrità – non importa quanto antipatica – aveva avuto il diritto a quel quarto d'ora di rispetto post mortem che per Jacko non c'è stata. Abbiamo iniziato con le battute subito e, posso dire? Alcune non valevano nemmeno la pena.
Ma non voglio fare la morale. Mi piacerebbe soltanto capire i motivi per cui il suo cadavere ancora caldo ci è sembrato più buffo, e meno sacro, di quello di chiunque altro. Io credo che MJ, figura inattaccabile dal lato artistico, si sia macchiato di due peccati mortali, che non gli abbiamo mai perdonato, e che tuttora ci impediscono di vederlo per quello che è stato: l'eroe tragico di una vita straordinariamente complicata, e un artista immenso.
Il primo, irredimibile peccato è stato mettere a letto dei bambini in camera sua. Tutto qui? Sì, perché la polizia che setacciò Neverland non è mai riuscita a trovare niente di più, e i testimoni (radunati anche attraverso un numero verde: “sei stato molestato da Jacko? Chiama il XX-xx-xx”) non sono mai sembrati credibili alle due giurie che lo assolsero. Due volte. Il suo principale accusatore era un bambino che aveva sofferto di un cancro, a cui MJ aveva pagato le sedute di chemio. Lui, il fratello e la madre si contraddissero varie volte durante il processo. Nonostante questo, siamo tutti convinti che MJ sia stato un pedofilo. Lo abbiamo sentito dire talmente tante volte che dev'essere vero per forza. Conosco adolescenti convinti che sia stato anche in prigione.
Questo non sorprende più di tanto: al giorno d'oggi, quando è sufficiente ricevere delle palpate da uno studente per venire processati per pedofilia, un cantante dissociato che invita i bambini in casa sua e lascia che si addormentino nel suo letto non può che essere un mostro morale. Sul blog di Massimiliano Frassi (quello che “nuoce gravemente alla salute dei pedofili”), la morte di MJ è festeggiata con un fotomontaggio in cui il cantante spaventa a morte Macaulay Culkin. Chissà se Frassi ignora che proprio una testimonianza di Culkin contribuì a scagionare MJ nel secondo processo: l'attore prodigio raccontò di aver dormito tranquillamente nel letto dell'ex cantante-prodigio senza subire alcun tipo di molestie. Sì, ma cosa importa? Da Frassi si giudica, si condanna, si festeggia: “Chissà se i funerali li faranno domani, proprio nella giornata dell'orgoglio pedofilo...”, “ora tutti i bimbi avranno una paura in meno” (dai commenti).
Fu esattamente questo tipo di voci incontrollate a causare un primo esaurimento di MJ durante gli anni Novanta. La stampa che oggi finge di stupirsi per il cocktail di antidepressivi che lo ha ucciso dovrebbe farsi un esame di coscienza – non che io creda che lo farà mai. Su Internet però il discorso dovrebbe essere diverso: qui, oltre al cinismo, ci dovrebbe anche essere lo spazio per un po' di senso critico.
Un altro peccato, in apparenza meno grave, risulta altrettanto imperdonabile: il colore della pelle. Forse potremmo passar sopra al suo rapporto problematico con l'infanzia; in fondo sappiamo che il padre lo picchiava e magari ne abusava (altra voce incontrollata)... ma non era fiero di essere nero, e questo no, questo non può essere perdonato.
Dietro alla voce insistente, e ormai data per certa, del cantante che “si faceva sbiancare la pelle” (ma sosteneva di curare vitiligine e lupus), c'è qualcosa di più. Per tutti gli anni Novanta MJ era rimasto fedele a un obiettivo artistico e culturale coerente con le sue premesse di ultimo virgulto dell'orto Motown: la conquista del Bianco. Dagli esordi di bambino prodigio, subito cannibalizzato da tv e merchandising, alla svolta disco-funk di metà Settanta (quando i Jacksons si stancarono di essere trattati da boy band e passarono alla CBS), ai dischi con Quincy Jones. Tutto portava lontano dai ghetti del R'n'B, verso un pop sempre più internazionale e sempre meno “nero” – ed ecco il tabù: in un mondo che a partire dagli anni Novanta rivalutava qualsiasi steccatino e qualsiasi radice rinsecchita, Michael Jackson rimaneva un grande artista degli anni Ottanta: uno che le radici le rinnegava tranquillamente, prontissimo a disseppellirle e a rivenderle al migliore offerente per un disco di platino in più. Anche in questo tanto simile al vecchio rivale Prince, pure lui insofferente verso le categorie “black” e “white”, e pure “male” e “female”, e (avrebbe aggiunto MJ) “adult” e “child”. Jacko e Prince, pilastri di un decennio camp che citiamo a man bassa con pretese perfino filologiche, senza accorgerci che lo stiamo tradendo, che in realtà non lo capiamo già più: proprio perché il nostro obiettivo è trovare qualcosa in cui identificarci, un'Identità, un'Origine, mentre loro spingevano con tutte le forze verso la direzione opposta, l'Altro da Sé, con un coraggio che non siamo nemmeno capaci di capire. Che durante questo percorso MJ cominciasse a impallidire, è il segno d'infamia che non riusciamo a perdonargli.
Chi scherza su MJ a fossa aperta dà per scontato che la musica non ci abbia perso niente: che i fasti di Thriller fossero finiti da un pezzo eccetera eccetera. Non è proprio così. Già per gli standard qualitativi degli anni Ottanta, MJ sembrava provenire da un altro pianeta, nella costellazione del Professionismo Assoluto, ultima traccia del retaggio Motown. Per favore non paragonatelo a Madonna, che canzoni ha scritto Madonna? Ha inventato un solo passo di danza? Puoi riconoscere Madonna semplicemente da un suo acuto? Poi è anche vero che rispetto a tutte le sciacquette che sono venute dopo, Madonna giganteggia: ma MJ era in un'altra categoria. Oggi sappiamo che dietro a quel sogno di perfezione c'era un padre coercitivo e manesco. Ma quello che ci ha dato è difficile da liquidare. Nemmeno dieci anni fa, con la pelle e il volto in disfacimento, Jacko componeva ed eseguiva ancora pezzi complessi e irresistibili come You rock my world, di fronte ai quali i pompatissimi ed esausti epigoni della scena pop dell'ultimo decennio devono andare a nascondersi, subito.
Questo era Michael Jackson. Io che non ho mai avuto in casa un disco suo, che ai pezzi dei bambini prodigio preferisco quelli dei trentenni stonati, ci terrei però a ribadire un punto: era un genio. Ha avuto una vita difficile; ha fatto montagne di soldi, ma è discutibile che se li sia goduti davvero. La prossima sonda da lanciare nello spazio profondo con qualche prova del valore dell'umanità dovrebbe contenere almeno il video di Beat it, un passo di moonwalk e l'mp3 di I want you back. Questo non ci impedisce di raccontarci barzellette sul pedofilo che andava in clinica a sbiancarsi, se proprio ci teniamo. Jacko è stato anche questo, cibo pronto per tutti gli avvoltoi mediatici, professionisti e improvvisati. E ci mancherà anche per questo.
venerdì 26 giugno 2009
Italo rulez
Sono contento, perché il 18% dei maturandi non ha scelto di fare il tema sul Punk (è uscito anche il punk). Né su Elvis (pure lui), né sui Beatles, né sul Muro, né sull'Innamoramento e sull'Amore ai tempi di Msn. No, il 18% dei maturandi ha scelto un tema di letteratura su La coscienza di Zeno di Italo Svevo. E la cosa mi fa venir voglia di scendere in piazza e fare un carosello, forza Italo. Potrei andare con le bandiere e le trombette davanti a casa di Citati, che qualche tempo fa riteneva Zeno “incomprensibile” per un quindicenne. Proprio così. Uno dei libri più letti e più amati del Novecento italiano: incomprensibile.
Ora mi sono accorto di non averlo in casa. Invecchiando, infighettandomi, devo avere avuto pudore del vecchio Newton Compton verde pisello (col prezzo vergognoso, “2900 lire!” sbalzato in similoro). Invece ho ancora in quinto volume del Guglielmino/Grossier che usavamo al liceo. Se adesso lo apro, se vado a cercare il finale della Coscienza, ci trovo scritto sopra, a penna, Sacrosanto. È stato Gigi. Fino a qualche anno prima aveva usato i miei libri per disegnarci i cazzi e forza Juve. Poi un mattino prese una penna e scrisse sopra il finale della coscienza di Svevo (Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie) “SACROSANTO”.
Sacrosanto è Svevo, altro che incomprensibile. Assai più praticabile, già oggi, di Kurt Cobain, Elvis Presley, Jim Morrison. Quelli si allontanano a vista d'occhio, e Svevo rimane lì, col suo italiano incespicante che sentiamo subito nostro: il grande romanziere più sgrammaticato del Novecento (a parte Palazzeschi, certo). Il fumo è quasi scelta obbligata nelle antologie di terza media. Ed è giusto così: una pagina così divertente e micidiale sulle dipendenze non si trova facilmente. Le paginette memoriali degli sfattoni degli anni Ottanta sgualciscono, e Zeno resta lì, nostro contemporaneo.
Svevo è stato il primo scrittore in Italia ad accorgersi della psicanalisi: che era la novità del momento, come oggi facebook. Ma non gli sarebbe bastato trasformare i concetti freudiani in gustosa letteratura (traumi, negazioni, pulsioni, lapsus, sublimazioni: c'è tutto in tempo reale). No, Svevo voleva anche prendersene gioco. Subito, senza neanche dare agli operatori del settore il tempo di prendersi sul serio. Il primo analista della letteratura italiana, il dottor S., fa il suo debutto nelle prime righe e si svela immediatamente come un rancoroso incapace. Un professionista che pubblica le memorie del suo cliente “per vendetta, e spero che gli dispiaccia”!
In parte grazie alle sue frequentazioni, Svevo è l'unico italiano a comparire nell'album di famiglia dei Grandi Autori del Novecento: Joyce, Beckett, Proust, Musil, Kafka... anche se in un'istantanea del genere risulterebbe sfocato in seconda fila, semicoperto dalla spalla di qualche Immortale, mentre si guarda intorno scettico: che ci faccio qui? Io sono del ramo assicurazioni. Eppure con gli anni qualche sospetto viene: e se fosse il più grande? Alla fine è la memoria che decide, con criteri tutti suoi: 2000 pagine di Uomo senza qualità (decadenze, incesti) sbiadiscono nel nulla, e Zeno Cosini resta il nitido seduttore della sorella della sorella della ragazza che gli piaceva. Si spegne lentamente il Doktor Faustus con le sue raffinate dodecafonie, e ti restano in mente le sviolinate di Guido e le canzonette di Carla. Persino a Joyce non pensi più per mesi interi; ma c'è sempre una data sul calendario, un formicolìo al petto, un funerale in ritardo, un affare stranamente riuscito, che ti rimandano a Zeno. Che libro. Sperimentale e borghesissimo, profondo in punta di piedi, comico e apocalittico, tanto che a volte uno si meraviglia: possibile che sia stato scritto proprio in italiano? Roba nostra, siamo sicuri? E com'è che non se ne fa più?
giovedì 25 giugno 2009
The Pleasure Of Conquest
(Italian version)
When Berlusconi says he never paid a woman, I believe him. I think he's telling his truth.
Of course, he presents them with lots of cadeaux: bracelets, necklaces, cds with Neapolitan songs composed by himself. And then maybe a job in a tv show (or in the European Parlament, better still). But that doesn't mean he's paying, doesn't mean he expects anything in return. It's just... how did the ancient kings call it... Munificence, that's it. That doesn't mean he ever paid a woman.
The girls with an Eastern European accent, in Santa Claus costumes. The bunch of semi-naked ladies sailing to Villa Certosa, his Sardinian residence... the escort girls who admit they've spent one night with him... One of them may become a showgirl, another one a Minister, but none of these women has ever been paid by Berlusconi, how could you think such a thing? They all went to see him because they really like him. They love spending an evening with him, carefully laughing at his jokes, watching clips of his speeches and his villas on the big screen, listening to his old-fashioned songs. An evening like that may happen once in your lifetime, and you'll never be the same again. Your life-story will forever be divided in “Before” and “After You Went To Berlusconi's Party”. Who on earth would ask for money for something like that? You just go down on your knees and thank God.
“I've never paid a woman. I’ve never understood what would be the satisfaction if there isn’t the pleasure of conquest”. He told us so. He was not joking. He's not a whore magnet, he can't picture himself like that. He's still the fabulous stallion the girls can't help falling in love with.
It may not be a sex affair – the 72-year-old guy doesn't search for sex, but for that particular thrill: the Pleasure of Conquering. So what could be worse than a Prime Minister who divorces because of a sex addiction? A Prime Minister who's divorcing from reality, because he can't face it anymore. We could be ruled by a sex-addicted monarch (it has happened already), but not by a dumb one. That would be too dangerous, even for Italian standards.
Berlusconi has changed our history, our mind: our way of life, our dreams, everything has been reformatted and recreated by him in the 80s, when he was our tv tycoon. And then he changed our politics in the 90s, turned it upside down, as we shifted from the “Catholic vs. communist” struggle to the “Berlusconian vs. Anti-berlusconian” puddle. He fooled everyone, and nobody has fooled him yet: not until now. In fact, there's only one man in Italy who could defeat him, and that's himself. Should Berlusconi fall, that will be Berlusconi's last, and greatest victory.
That would mean that he really has come to believe the lies he has told us so many times: in the ghosts of Eternal Success, Pleasure and Luxury he gave us in the 80s. Those were the days, when he taught his salesmen to view the Italian Consumer as an “11-year old dumb boy”. And yes, that's how his tv shows treated us. And there was no alternative: no surprise that we have become, little by little, that not-so-clever-11-year old boy. What surprises me, is that he followed us, sometimes even preceded us, and now he's just as dumb as we are. Hey kid, what d'ya want? You want boobs? Ok, push the button. All the boobs you can watch and squeeze: easy, fun and free. Daddy's gonna pay tomorrow.
We should have suspected that some years ago, when he confessed he loved watching late night tv sales. Sometimes he actually picked up the phone and bought something (something he was selling: doesn't it sound disturbing, selling and buying stuff from himself, kind of... self-eroticism?) In the last days of his 2006 campaign, he told his audience that he was sure of his victory, because the night before he had personally held a bizarre poll: he made a few calls to a sexy hotline, and ask every girl: “Will you vote for me?” And every girl, guess what? Told him “Sure”. Now, it's not just the fact that he did such a stupid thing, but the fact that he told us – he told us to vote for him because sex-line girls can't be wrong – we should have understood right then: we were losing him.
And now he's lost. The perfect victim of Berlusconism: a hedonistic syndrome which pushes one to seek pleasure without ever getting satisfied. He can not sublimate his libido through the exercise of power: he has told us more than once that he doesn't enjoy his job as Prime Minister – soooo boring. So he's filling up his toy room with girls: easy, free and fun. But he just can't get enough.
His lawyer, Mr Ghedini, at the end of a bad day, could not deny Berlusconi had sex with an escort or two. He could not deny that someone paid them. All he could say was that Berlusconi couldn't be prosecuted for having sex with an escort, because he wasn't the person who actually paid her. He was just (in Ghedini's words) “the final user”. I swear, it doesn't sound less strange in Italian – what the hell is a “final user”? It's just legal slang, yet there's something biblical in the phrasing: as if those women had been created for a purpose, and they kept searching for it their whole lives long, until they finally found it: and their purpose was Being Finally Used By Berlusconi.
But what about him. How sad it must be to wake up one day and discover that those ladies don't love you, and they never did. They were just being paid to be used... but who was finally using who? You brought jewels, they brought microphones. How could they be so material? Whoever taught them to behave like that? Is there a conspiracy out there? Of course there is. And its name is Berlusconism.
Will you survive if you stop believing in yourself? Can you get through the summer without one of your favorite orgiastic pastimes? We've all seen you rise again from the dust a dozen times, but this time seems different. You're a little older, and you have to deal with that. That means facing the strongest enemy you ever had: yourself. Good luck.
(Sentitevi liberi di correggere, è un esperimento).
mercoledì 24 giugno 2009
"Il piacere della conquista"
Io, quando Berlusconi dice che non ha mai pagato una donna in vita sua, gli credo.
O meglio: credo che sia sincero. È davvero convinto di non averne mai pagata una. Certo, ci sono i regalini, i ciondoli, le tartarughine, i rimborsini spesa, un posto da meteorina, un cantierino da sbloccare. Ma quando regala, quando promette, Berlusconi non ha la sensazione di pagare in cambio di un servizio. È da una vita che ricopre di bigiotteria e orologi tutta la servitù che gli capita a tiro: la munificenza è semplicemente un aspetto del suo carattere, un attributo regale. Berlusconi non ha mai pagato una donna in vita sua.
Le slave in costume da Babbo Natale. Le squinzie che attraccano al molo di Villa Certosa. Le aspiranti meteorine, letterine, letteronze, europarlamentari. Tante belle ragazze che vanno a trovare Berlusconi non per soldi, ma perché è davvero bello passare una serata con lui che racconta barzellette e poi ti regala la tartarughina e il cd di Apicella. È realmente un'esperienza che dà senso alla tua misera vita: da quel momento la dividerai in “prima” e “dopo la serata con Berlusconi”. Non c'è bisogno di pagarti. Vabbè, al limite un rimborso spese, ma non servono altri incentivi: anzi c'è la fila fuori, per sentire il cd di Apicella. Lui deve veramente pensarla così.
"Se non c'è il piacere della conquista", dice, non c'è soddisfazione. È questo che cerca: più del sesso, il brivido del seduttore. Ed è convinto di sentirlo ancora. Lui non si considera un puttaniere, non gli passa nemmeno nel vestibolo del cervello: lui, quelle signorine, le seduce tutte. Questo è molto più grave di avere un Presidente satiro: si è rimbambito. Doveva succedere, è successo pian piano.
Non si tratta di sminuirlo, anzi. Berlusconi è stato un genio. Ha plasmato l'immaginario degli italiani. Ha ricostruito la politica italiana intorno al culto della sua personalità. Ha fregato tutti, nessuno ha mai fregato lui. In effetti in Italia non c'è stato, negli ultimi 30 anni, un uomo in grado di tenergli testa. A parte uno: sé stesso. Se Berlusconi cadrà, sarà per mano di Berlusconi. Solo Berlusconi sarebbe in grado di sconfiggere un avversario tanto tenace.
Certo, il tempo ha dato una mano. L'età che avanza, il potere che si accentra, l'impressionante numero di cretini che lo circonda, tutto congiura contro di lui. Col tempo il vecchio Berlusconi ha finito per credere ai fantasmi di Successo e di Piacere contrabbandati a suo tempo dal giovane Berlusconi. Si è davvero convinto che si può essere per sempre dei simpaticissimi cumènda che fanno ridere e innamorare le donne col loro repertorio di battute e carinerie. Tutto facile, tutto accessibile, tutto gratis: il vecchio Berlusconi è pericolosamente simile a quell'“undicenne neanche troppo intelligente” in cui si trasforma qualsiasi italiano quando diventa tele-utente e target pubblicitario, secondo una fortunata formula coniata dal... giovane Berlusconi. Cosa vuoi, bambino, vuoi le tette? Tante tette? Va bene, premi sul pulsante che arrivano. Tutte gratis. Non preoccuparti, paga papà. Più tardi. Con comodo.
Avremmo dovuto capirlo quando hai cominciato a far mattina davanti alle Televendite. L'edonismo berlusconiano ha colpito anche te – del resto, perché avresti dovuto esserne immune? L'ansia della soddisfazione consumustica ti ha contagiato. Ti ha impedito di sublimare le tue pulsioni sessuali nell'esercizio del potere: lo hai detto tu stesso che governare non ti piace, e si vede benissimo che ti ci annoi. Allora ti riempi la casa di donnine da scartare come caramelle: gratificazione immediata. Una fantasia infantile, come la gelateria privata in cui ti fanno lo scontrino ma non paghi... chi paga? Il popolo italiano. Più tardi. Con gli interessi.
L'uomo poi potrebbe ancora risvegliarsi, come Lear, o meglio come Claudio Augusto quando scoprì gli inganni di Messalina. Non sarebbe un bel momento: accorgersi che le donne che facevano la coda per vederlo erano effettivamente pagate – non da lui, utilizzatore finale, ma da qualche procacciatore interessato a scambiare un favore. Significherebbe aprire gli occhi su di sé, vedersi per quello che si è realmente: un settantenne molto potente, simpatico ma un po' arrogante, e privo di qualsiasi sex appeal. Ma dirsi la verità non è facile, a nessuna età. È triste dover ammettere di essere utilizzatori. Forse è ancora più triste scoprirsi utilizzati, magari da una signorina qualunque che faceva la simpatica ma in realtà pensava solo al regalino, al rimborso, alla raccomandazione, al disbrigo della pratica. Tu stai cercando di ammaliarle col tuo fascino, e loro si portano il registratorino per ricattarti. È un brutto momento, ma di chi è la colpa? C'è un complotto? Sì, in effetti sì. Si chiama Berlusconismo.
Come andrà a finire? Magari non succederà niente: non è la prima volta che l'uomo si rialza dalla polvere e rimette sotto gli italiani come niente fosse. Quello che rende questa crisi un po' più strana delle altre, è che stavolta Berlusconi è stato colpito nel profondo delle sue abitudini. Quest'estate non potrà concedersi le ostentazioni orgiastiche che erano pratica corrente fino a qualche mese fa. Ce la farà? Togliere a un vecchio i suoi ultimi vizi: non rischia d'impazzire?
(Nessun problema per noi, siamo impazziti già da tempo).
martedì 23 giugno 2009
Masters of Pappappero
Traccia: Sulla base delle vaghe parole ospitali pronunciate da Barack Obama nei suoi confronti (gli ha detto “my friend”, come la cassiera al supermercato) dimostrare che Berlusconi è un grande statista e un grande diplomatico, e non quel pagliaccio internazionale di cui parlano i fogliacci esteri.
Svolgimento:
Sono rimasti senza parole, tramortiti e addolorati, [...] Ma come è possibile? No, non può essere possibile. Non è vero. Non può essere vero. “Great to see you, my friend”, con sottolineatura sul “my friend”, più doppia pacca sulle spalle. [...]
Ma è impazzito? Gli ha pure chiesto consigli sulla Russia. A papi. E invece che le dieci domande dei segugi di Repubblica, gli ha rivolto tante belle parole e tanti ringraziamenti. Dice anche che sono amici e che i rapporti tra l’America e l’Italia sono migliorati. E poi quel devastante “il primo ministro Berlusconi mi piace personalmente” che decreta una volta per tutte la fine della triste pubblicistica italiota del “ci fa fare brutte figure all’estero”.
Ora immaginatevi le facce di Max D’Alema, quello che piaceva personalmente ad Hezbollah, o di Alexander Stille, o di uno qualsiasi di guardia nella caserma di largo Fochetti: una vita spesa a indignarsi per la cafonaggine del Cav., devastata dall’endorsement personale e politico del presidente super elegante e supercool che, come racconta chi ha partecipato all’incontro, ha capovolto i ruoli e ha fatto lui il Cav., mettendo a suo agio un serissimo Berlusconi...
Siamo ai due terzi del temino e l'analisi si è già fatta da sola. Non ci dice quasi niente su Berlusconi (del resto l'indomani il suo direttore, con un articolo che Rocca prontamente definirà “storico”, cambierà idea sull'argomento e darà inizio all'allegra fuga dei topolini dal bordello che affonda). Ci dice tutto su Rocca, studente che si applica, ma non riesce a liberarsi dai suoi complessi d'inferiorità nei confronti dei primi della classe: Stille, Lerner, Zucconi, Serra: ogni fatto di attualità è valutato nella misura in cui può indurre uno dei secchioni a “rodersi” ("I custodi della nostra moralità si aspettavano invece che il superfigo Obama alzasse il sopracciglio e liquidasse il bauscia, come in un’Amaca di Michele Serra. Leggetevi l’articolo di ieri del magnifico Vittorio Zucconi. Capirete quanto je rode"). Ma è una vecchia storia, che abbiamo scritto in tanti e tante volte: il Foglio è stato un blog prima dei blog: prima che rosicare diventasse abitudine condivisa, i ragazzi di Giuliano Ferrara ne avevano fatto un'arte. Dovendo sintetizzare l'opera omnia di Christian Rocca in una parola io opterei per “pappappero”.
Eppure nel finale del pezzo c'è qualcosa di davvero interessante.
Obama è un politico, non il garante dei lettori di Repubblica. Si occupa di cose serie, non di guardare dal buco della serratura chi si fa una doccia. Il Cav. gli ha fatto tre grandi favori, sul G20, sull’Afghanistan e su Guantanamo, cose su cui Francia, Germania e Gran Bretagna hanno invece storto il naso. Ed è per questo che è stato estremamente amichevole con il Cav. e freddino con gli altri tre (il mitologico Zapatero, invece, non se l’è ancora filato).
Traduco: Obama è un politico vero, uno che tratta su qualsiasi cosa; se Berlusconi aveva bisogno di venire da lui per dimostrare al mondo la sua statura di statista, non lo avrebbe fatto gratis. Obama non è uno che si accontenti di un giretto con l'automobilina da golf, o un'orgetta a Villa Certosa: no, è un politico, scuola di Chicago. L'italiano vuole fare bella figura? Va bene, ma mi dovrà un favore. Anzi due. No, guarda, tre.
Per esempio, aumenteremo il contingente in Afganistan. Da 2800 a 3200, e un paio di Tornado in più. Francia e Germania non faranno qualcosa di paragonabile, del resto Francia e Germania non devono lottare per migliorare l'immagine internazionale dei loro leader. Sarkozy dovrebbe mandar giù appena 150 gendarmi. Ma Sarkozy nessuno lo prende per un clown. Invece Berlusconi con 400 effettivi in più si è fatto chiamare “my friend”. Lo avete sentito tutti, no? Obama ha detto “my friend”. Valeva o no la pena? Che vuoi che siano 400 militari in più?
Per esempio, ospiteremo qualche reduce di Guantanamo, la prigione dove secondo Rocca si stava tanto bene. Non c'è, per la verità, nessuna legge italiana che ci consenta di trattenere persone senza una pronuncia della nostra magistratura. Persino Fini è un po' in imbarazzo, ma gli toccherà mandar giù anche stavolta, perché Berlusconi aveva un favore da chiedere e Obama è un politico, non fa i favori gratis.
Tutto questo Rocca lo ha capito, mica è un coglione. Sa benissimo cosa comporta per noi italiani essere rappresentati da un pagliaccio affetto da satiriasi senile: significa dover pagare per lui, riconquistare uno straccio di onorabilità combattendo una guerra che non abbiamo mai capito e rinnegando le nostre stesse leggi. Tutto questo Rocca lo capisce e gli sta bene: perché? Perché l'importante è che si roda Lerner, o Serra, o Stille. L'Italia può perdere sovranità e prestigio – l'Italia può farsi fottere proprio – quel che interessa a Rocca è sciogliere all'urna un altro Pappappero. E vai così.
sabato 20 giugno 2009
The Self-Fulfilling Plot
C'è Rupert Murdoch in tuta di latex che sta sculacciando 13 donne nude con un battipanni a forma di svastica, quando bussano alla porta.
"Chi interrompe un povero vecchio che cerca di rilassarsi un po'?"
"Eccellenza, Illustrissimo..."
"Prega che sia qualcosa di davvero importante".
"Luce del Mondo, Unica Fonte di Ogni Intrattenimento..."
"E bla bla bla. Tutte queste smancerie non ti porteranno a niente. Spiega cos'è successo e fallo in fretta".
"Eterna Luce della Mente Immacolata, abbiamo scoperto che in Italia c'è un signore che parla molto male di Voi".
"In Italia?"
"Un pidocchio, un parassita, anzi peggio, un concorrente".
"Come, ho dei concorrenti? In Italia?"
"Ahimè, Eccellenza, sì".
"E chi sarebbe questo impudente, il Papa?"
"Quasi, illustrissimo. Il Primo Ministro".
"Il Primo Ministro? Ha delle emittenze televisive?"
"In chiaro, sì".
"Bizzarro. Ne avrà un paio".
"Ne ha tre, più le tre dello Stato, più svariati quotidiani, cinema, libri, pubblicità..."
"E gli lasciano tenere tutto questo mentre fa il Primo Ministro?"
"Eccellenza, sono usanze locali. Comunque il succo è che sta parlando molto male di Voi".
"E cosa dice?"
"Dice che state complottando contro di lui, per via di una storia di donnine".
"Si è fatto fotografare?"
"Maestà, sì".
"Sado? Maso? Lesbo? Pissing?"
"Mah, niente di che, però... potrebbero, dico potrebbero, esserci in ballo delle minorenni".
"Ah, quindi è fottuto. E dice che sono stato io?"
"In conferenza stampa. Sarebbe una specie di vendetta perché hanno aumentato una tassa sul decoder".
"Quegli stronzi. E... spiegami bene: sono davvero stato io?"
"Eccellenza, no".
"Potrebbe essere stato qualcuno dei distaccamenti europei, magari, di sua spontanea volontà, per farmi una sorpresa?"
"Sire, tutti sanno che Voi non amate le sorprese".
"Insomma, questo tizio mi calunnia".
"E' un modo per spostare l'attenzione dal dibattito interno, che..."
"Bla bla bla, non m'interessa. Senti, facciamo così. Non mi va che la gente pensi che Rupert Murdoch fa le vendettine alla cazzo, mi capisci?"
"Sì, Mio Divino".
"Del resto la calunnia è un venticello. Smentire non servirebbe a nulla. Ci sarà sempre qualcuno che preferirà pensare che sono stato io. Allora facciamo così: vai in Italia e compra una ventina di signorine. Le voglio belle e... maggiorenni, per ora. Poi vedremo".
"Onnipotente, cosa vuole farci?"
"Niente di che. Devono andare sui quotidiani più prestigiosi e dire che hanno preso soldi per andare a letto col tizio. Con tariffe miserevoli. Ah, meglio ancora se la cosa è successa veramente. Secondo me non sarà difficile trovarne".
"Illustrissimo, lei è veramente la Falce Acuminata della Vendetta Implacabile".
"Bla bla bla, niente di personale. Ma se la gente deve per forza pensare che Rupert Murdoch si vendica, voglio che almeno pensi che sa farlo sul serio".
"Mi prostro a cotanta..."
"Vatti a prostrare fuori dai coglioni, magari. E ricordati: venti ragazzine. Maggiorenni ma non troppo".
"Venti".
"In seguito mi riservo di ordinare qualche nano e... dei cammelli, sì. Ci sono cammelli in Italia?"
"Dromedari, forse".
"Naah, il cammello è molto più morboso. E uno di quei serpenti costrictor in via d'estinzione".
venerdì 19 giugno 2009
Quella vecchia 131 Mirafiori
Ma così, per curiosità, sapete quanti referendum abrogativi ci sono stati in Italia dal 1997 a oggi? Negli ultimi 12 anni? Ho provato a contarli: ventuno.
O forse venti. In cinque tornate: 1997 (radicali), 1999 (radicali+Segni+Di Pietro), 2000 (radicali), 2003 (comunisti e verdi), 2005 (radicali). E sapete quanti di questi hanno raggiunto il quorum? Secondo me lo sapete.
Esatto, neanche uno.
È da quindici anni che i referendum abrogativi non esprimono nessuna volontà popolare. Da quindici anni si promuovono (con estenuanti raccolte di firme), vengono vagliati dalla Corte Costituzionale, che li boccia o li approva; se li approva il Viminale stampa le schede, apre i seggi (qualche volta deve chiudere anche le scuole) e quando i seggi chiudono finisce tutto lì. Tante schede, seggi, manifesti, spazi pubblicitari, tutti soldi buttati, sì, ma a parlar di soldi sembra di essere venali; parliamo allora un po' della fatica: la fatica di chi raccoglie le firme, le autentica, le vidima, chi apre e richiude i banchetti, gli scrutatori, i bidelli, i poliziotti, i giornalisti, tutte queste piccole energie sprecate, compresa quella che sto usando io per spiegarvi se andrò o no a votare al referendum – cosa importa? Andate, non andateci, non cambierà nulla. Tanto il quorum è fuori discussione.
Il primo referendum abrogativo è stato indetto nel 1974. Da allora, per più di vent'anni, l'istituto ha funzionato, coi suoi alti e bassi. Gli ultimi referendum abrogativi che registrarono chiaramente una qualche volontà popolare furono quelli del 1995. Da lì in poi non sono più serviti a niente. Tecnicamente, perché da un punto di vista mediatico a qualcosa sono serviti: a toglierci la voglia di esercitare la volontà popolare. Sai, dopo dieci anni può capitare che ci si stanchi, di votare a vuoto.
Ciononostante c'è sempre qualcuno che ci prova – sempre gli stessi, per lo più. Pannella, Segni: anche il fronte referendario, come tutti gli altri soggetti politici, è invecchiato. Li vedi ormai pensionati, armeggiare intorno al motore d'accensione della Poderosa Macchina Referendaria (una Fiat del 1974) che non parte più; ma loro continuano a girare la chiavetta, imperterriti. Hai voglia a spiegargli che così il motore si ingolfa: la chiavetta è roba loro, evidentemente è roba loro anche la macchina, se solo partisse. E se non riparte più, peggio per tutti: il loro dovere era quello di girare la chiavetta fino alla fine.
Il referendum abrogativo è un diabolico arnese. Da una parte entra la volontà popolare. Ma può entrare solo con una pressione fortissima: il 50% degli aventi diritto più uno. È abbastanza chiaro che se scomodi la metà degli italiani, quello che salta fuori dovrebbe essere Legge: una di quelle scolpite nel marmo.
In realtà però questo getto fortissimo di Volontà Popolare non può scrivere un testo di legge. Può solo esprimersi in due modi: Sì, o No. Ultimamente è anche peggio di così: il getto di Sì o No non viene usato per abbattere una legge intera, ma soltanto qualche frase qua e là; per modificare un tecnicismo, limare una asperità, cambiare senso a un paragrafo. Riparare un testo di legge con un referendum abrogativo è un po' come rimuovere una carie con un martello pneumatico: per funzionare funziona, ma ha qualche controindicazione.
Una di queste controindicazioni, la più perversa, è l'istituzionalizzazione del Quorum Negativo. Mi riferisco alla rivoluzione copernicana per cui, dal 2000 in poi, il referendum non serve più ad abrogare una legge, ma a consacrarla: secondo il principio per cui, siccome il 50%+1 degli aventi diritto non è andato a votare, evidentemente il testo di legge alla maggioranza va bene così com'è. Uno stravolgimento che ha reso particolarmente spiacevole la consultazione sulla fecondazione assistita del 2005. Se i principali artefici dello stravolgimento furono i vescovi della CEI, che trasformarono il non pronunciamento del popolo in un successo mediatico, non bisogna dimenticare che la volata di Ruini la tirarono i promotori del referendum, che decisero di sfidare Chiesa e maggioranza parlamentare con uno strumento che non funzionava già da dieci anni. Una cosa che a ripensarci non ci si crede: ma chi erano quei promotori? Cosa volevano ottenere? Uno era Capezzone.
Probabilmente anche il prossimo flop referendario verrà utilizzato nello stesso modo; ovvero l'artiglieria televisiva ne approfitterà per suggerire: Vedete? Alla Gente il sistema elettorale piace così com'è, è per questo che non sono andati a votare. E c'è qualcosa di perversamente geniale in questo Non-Voto che diventa ratifica: il trionfo della maggioranza silenziosa. La vecchia Fiat del 1974, semi-abbandonata nel parcheggio dei radicali e dei pattisti di Segni, a ogni tentativo di accensione disperde benzeni nocivi nell'aria. Consoliamoci, cadrà a pezzi prima o poi.
Io, se interessa, non voterò per i primi due quesiti (scheda viola e beige). Trovo demenziale che mi si chieda di scegliere se voglio dare un premio di maggioranza a un partito o a uno schieramento; il risultato sarebbe semplicemente condensare i loghi di PdL e Lega nello stesso bollino una volta ogni cinque anni (vedi su NoiseFromAmerika la spiegazione di uno che comunque voterà sì). Valeva sul serio la pena di raccogliere firme per una cosa del genere? Beh, dipende, Capezzone ha cominciato così e guarda quanta strada ha fatto.
Se avrò voglia e tempo, voterò Sì sulla scheda verde, per abrogare la possibilità di Berlusconi (e Di Pietro, e Vendola) di candidarsi in più circoscrizioni. Ma non mi faccio illusioni: non raggiungeremo il quorum e Berl. ne trarrà la conclusione che la Gente lo vuole candidato dappertutto. Scusate se non riesco a camuffare un certo disilluso risentimento, ma ho veramente perso troppi referendum per crederci ancora. Troppe energie, davvero. Mi chiedo Pannella come faccia. Hascisc, probabilmente.
Dall'archivio:
* Cassandra Connection (referendum '03).
* Democrazia abrogativa (referendum '05).
martedì 16 giugno 2009
I want your Sex
Contrariamente a quanto qualcuno potrebbe pensare, gli insegnanti non bocciano volentieri. Non quelli di oggi, perlomeno. Ci sono vari motivi.
Un primo motivo è burocratico. Respingere qualcuno, o non ammetterlo all'esame, è una scelta che deve essere motivata con pezze d'appoggio di ogni tipo. L'insegnante che sta pensando di bocciare un ragazzo è consapevole che nel caso (probabile) di un ricorso dovrà fornire ampia documentazione, registri in ordine, tutti i compiti in classe e i verbali impeccabili: in pratica, sarà lui a trovarsi sotto esame. Per molti è già un rischio più che sufficiente.
Un secondo motivo è sociale: anche se tutte le pezze d'appoggio fossero al loro posto, l'insegnante che boccia non si trova in una bella posizione. Bocciare non significa soltanto danneggiare una persona, ma prolungare il periodo di tempo che quella persona passerà vicino a te. Quando un giudice condanna un reo, di solito la polizia lo prende subito e lo porta lontano dalla persona che ha deciso la sua sorte. Anche gli insegnanti possono decidere la sorte dei loro studenti, ma a meno che non siano precari o pensionandi, il destino di un bocciato è ritrovare il suo giudice a settembre. E se non la prende bene? E i genitori? A giugno l'equilibrio psico-fisico di molti insegnanti è già abbastanza compromesso senza bisogno di porsi queste domande. Poi, rifletteteci bene: qual è la vostra reazione istintiva davanti a qualsiasi fastidio? Sopprimerlo, allontanarlo. All'insegnante invece viene chiesto di fare il contrario: lo studente che ti rallenta la lezione, che mette in dubbio le tue capacità, che t'infastidisce... devi tenertelo un anno in più.
Un terzo motivo è psicologico. Ho appena paragonato l'insegnante a un giudice, un paragone che è quasi un tabù. Eppure noi siamo giudici: ma quasi mai lo siamo per vocazione. Cerco di spiegarmi: non si diventa giudice per caso. Ci si laurea in legge, si fanno i concorsi, e intanto si cresce con una certa convinzione di saper distinguere, se non il Bene dal Male, almeno il Diritto dal Torto. Allo stesso modo, un poliziotto di carriera non si ritrova in un conflitto a fuoco per caso: ha studiato, ha sviluppato delle convinzioni etiche, oltre a una certa pratica della violenza. Potrei fare altri esempi di persone che si sono allenate per anni all'idea di prendere decisioni anche violente, anche in tempi brevi; ecco, gli insegnanti no.
Gli insegnanti hanno studiato la loro materia, matematica letteratura scienze o arte che sia; si spera che abbiano anche avuto un'infarinatura di pedagogia o didattica, e che abbiano nutrito un sano entusiasmo per l'idea di insegnare ad altri quello che hanno imparato. Se sono diventati insegnanti è perché amavano la loro materia, alcuni; altri (i migliori forse) perché amavano insegnarla ai giovani; altri ancora perché non hanno trovato un posto più sicuro; ma nessuno secondo me diventa insegnante perché gli piace l'idea di stangare gli ultimi della classe. Quelli piuttosto fanno i giudici, no?
Un quarto motivo, l'unico giusto, è che a molti ragazzi la bocciatura fa più male che bene. Ci sono precedenti: il ragazzo demotivato non si motiverà, il bulletto diventerà un po' più grosso e farà ancora più paura ai piccoli, eccetera eccetera. Io parlo da operatore della scuola dell'obbligo, alle superiori la filosofia dovrebbe essere diversa. In ogni caso, in questi anni ho cambiato centinaia di colleghi e non mi è mai capitato di sentire qualcuno che dicesse “quello non vedo l'ora di bocciarlo”. Per contro, ho sentito migliaia di “quello non vedo l'ora di promuoverlo così si toglie dalle xxxxx”.
Questi sono i quattro motivi per cui l'insegnante di oggi non boccia volentieri. Mi sembrava giusto descriverli, se non altro per correggere quell'immagine ormai letteraria della Professoressa donMilaniana, tutta tesa a bocciare il contadino che non sa l'Iliade a memoria. Il tempo è passato, c'è stata una rivoluzione antropologica nel frattempo, e se don Milani gestisse una scuola oggi, secondo me scriverebbe lettere di fuoco alle professoresse che promuovono figli di papà incapaci di declinare un genitivo plurale imparisillabo. Il tempo è passato, ma il Mito della Professoressa Bocciatrice è rimasto, saldandosi all'altro Mito del Sei Politico, formando una specie di mitologia della Scuola Di Sinistra Che Non Boccia Perché È Ideologizzata. Avendo passato ormai quasi un decennio nelle scuole statali di una delle regioni più ideologizzate dell'Europa e quindi del mondo, mi sento di dirlo con cognizione di causa: stronzate. Gli insegnanti non è che non bocciassero per donMilanismo o sessantottismo. Gli insegnanti non bocciavano perché (1) temevano i ricorsi, (2) temevano le rigate sulla macchina, (3) non amavano fare i giudici, (4) non ritenevano fosse il bene del ragazzo.
Fino all'anno scorso. Cos'è successo improvvisamente? La Gelmini ci ha trasformati in sadici cacciatori di teste? La cosa è un po' più complessa.
Senz'altro l'idea del giro di vite arriva dal Ministero. Ma in un modo molto più ambiguo di come ce la vogliono raccontare i media. Le varie circolari, spesso contraddittorie, ruotavano in ogni caso intorno a questa idea del sei. Quest'anno occorreva passare col sei. Con tutti i sei o con la media del sei? Credeteci o no, non si è capito fino alla settimana degli scrutini. Ma bocciare non è una cosa che si possa fare all'ultimo momento: bisogna aver preparato la famiglia (se per un anno non le dici niente e poi le falci il bambinetto all'ultimo momento, per forza poi ti fa ricorso: e nessuno vuole un ricorso). Questo ministro, che è molto chiaro ogni volta che parla davanti a una telecamera, quando scrive le circolari diventa un mostro d'ambiguità.
Sia come sia, non c'era, nelle comunicazioni ufficiali, niente che potesse essere interpretato come un esplicito invito a bocciare di più: la cosa che premeva al Ministro era che i Cinque o i Quattro degli ammessi agli anni successivi diventassero Sei, anzi Sex (fa ridere, ma si scrive proprio così, per evitare contraffazioni). È anche la cosa che ha maggiormente scandalizzato il corpo docente: in effetti il Ministro che all'inizio del suo mandato aveva ritirato in ballo il mostro dialettico del “Sei politico” sarà ricordata come quella che il Sei politico lo ha introdotto davvero.
Ma questa tutto sommato è una polemica linguistica: chi l'anno scorso aveva un paio di cinque quest'anno passerà con un paio di sex in più: non diventerà per questo più intelligente, e non migliorerà la posizione degli studenti italiani nelle statistiche di rendimento. Poi ci sono le scuole che hanno deciso di identificare i sex farlocchi, con un timbro, un asterisco, il rosso, ecc.: ma non è che cambi molto la situazione. Oggi, come ieri, la tattica di snobbare del tutto un paio di materie e studiare tutte le altre continuerà a pagare.
Rimane da capire perché si sono messi a bocciare, i prof italiani. Spero non per frustrazione. Ma un sospetto ce l'ho.
Al di là di tutte le comunicazioni fumose sui cinque e sui sex, c'è un punto su cui Maria Stella Gelmini è stata sempre chiarissima sugli insegnanti: gli organici. Tagli pesanti, che rimandano i precari storici sul marciapiede, e minacciano le scuole dei piccoli centri. Di fronte a un'offensiva del genere, gli istituti si difendono come possono. A questo punto bocciare può essere un sistema per salvare una classe: in fondo due respinti per sei classi di scuola media sono già dodici alunni in più che restano iscritti anche l'anno prossimo. A volte basta anche meno, per salvare una cattedra.
Nulla di consapevole, s'intende: non riesco a immaginare nessun Preside irrompere nei consigli di classe dicendo “Mi raccomando, bisogna bocciarne almeno due, così salviamo la Prima G”. Ma a livello istintivo l'insegnante a rischio cattedra si difende come una belva braccata: gli hanno tagliato la mutua, i pomeriggi, le compresenze, i sostegni ai disabili, le supplenze... e lui boccia. Sì, ma il ragazzo che colpa ne ha?
Più che colpa una sfortuna: è finita la cuccagna. Magari ha avuto un fratello maggiore cresciuto nella scuola post-D'Onofrio, senza esami a settembre: una lunga autostrada dall'asilo fino alla laurea. Bene, è arrivato il contrordine: tutti questi laureati non servono più (a ben vedere non sono mai serviti), tanto vale rallentare un po' il ritmo. Nella prossima società post-consumista una licenza media sarà più che sufficiente, e ci si potrà trovare a conseguirla a sedici, anche a diciotto anni. Tanto poi c'è da fare i fattorini. E gli ingegneri? Li prenderemo dall'India. Certo, bisognerà spiegarlo ai leghisti. Quando capiremo come comunicano, lo faremo.
sabato 13 giugno 2009
Magic moments
Fonti: Brambilla, Maurizia.
Vedi anche SocialDesignZine.
L'idea è venuta (meglio) anche a Diegozilla (via PaulTheWineGuy).
giovedì 11 giugno 2009
Prima della battaglia
Nei prossimi mesi nel Pd voleranno pugnali. Niente di nuovo ma, vorrei aggiungere, niente di male. È questo che farà del Pd un vero partito: discussioni serrate intorno a idee e candidati, con scontri veri, vincitori e caduti. Non cominciamo a stracciarci le vesti intorno al solito partito litigioso coi soliti D'Alema e Veltroni che litigano. Il problema di Veltroni e D'Alema non era che litigassero; è che non l'abbiano mai fatto fino in fondo. Dai, che potrebbe essere la volta buona.
Il punto è capire su cosa si litiga. Se lo scontro sarà semplicemente per imporre l'apparato dalemiano (diciamo bersaniano, così almeno sembra una cosa nuova) contro quello degli ex veltroniani, ci perderanno entrambi, e il Congresso sarà una cosa deprimente. Attenti, perché anche il dibattito sulla Serracchiani rischia di portarci su quella strada: giovani sì, giovani no, quelli delle primarie contro “i professionisti che fanno il giro delle sezioni”, eccetera.
Se invece lo scontro è tra due o più concezioni della politica e del partito, sarà una cosa appassionante, chiunque vinca alla fine: e una lezione di democrazia per tutti (ok, a nessuno interessano lezioni per ora, ma in futuro non è detto).
Si tratta quindi di capire in cosa consista il dalem... il bersanismo, Bersani a parte. È un'ideologia? Forse per adesso è più facile definire il franceschinismo.
Come chiave di lettura prendo una frase buttata lì da Franceschini in campagna elettorale, che fece molto rumore e divise profondamente lo stesso elettorato pd (perlomeno quella esigua porzione che conosco io). “Fareste educare i vostri figli da Quest'Uomo?” Ci fu chi inorridì, chi la trovò una perfetta provocazione. Ecco, per me in quel momento ci siamo trovati davanti a una quintessenza del franceschinismo. Berlusconi va rigettato in quanto incapace non solo di governare, ma di educare. Gli italiani devono essere educati a riconoscere in Berlusconi una figura diseducativa, e quindi a non votarlo – e magari a scegliere un tipo dimesso ma autorevole come Franceschini, che è ancora un giovane arbusto, ma da come si porta lo capisci che si presta a invecchiare come una quercia alla Berlinguer (un Berlinguer cattolico: l'Arma Finale. Se gli italiani che votano oggi fossero quelli del 1978).
Di fronte a un discorso del genere, il dalem... il bersaniano scrolla la testa: non capirete mai. Ma come, non li conoscete gli italiani? A loro Berlusconi piace così com'è. Cialtrone com'è, e come sono loro. Chi non vorrebbe la megavilla al mare con gelato e gnocca gratis. Faresti educare tuo figlio dall'Ospite di Topolanek? Magari, così mi viene su bello solare e senza complessi. No. Finché si continua a insistere sulla figura di Berlusconi ci si mette dalla parte dei perdenti. Invece noi, noi dalem... democratici, dobbiamo spostare il discorso sui problemi, sui veri problemi del Paese. Eccetera.
Chi ha ragione? Tutti ne hanno un po'. Chi è più a sinistra? Forse non è così importante. Da che parte sto io? Con Franceschini, per ora. No, pensandoci bene sto con Franceschini da una vita. Io nell'importanza delle figure autorevoli ed educative ci ho sempre creduto. Forse perché sono di formazione più cattolica che eurocomunista. Sia come sia, per me in quel momento F. aveva centrato il punto: sappiamo benissimo che Berl. è un punto di riferimento esistenziale per gli italiani. Persino per noi. Una villa, una velina o una squadra di calcio gliela invidiamo tutti con piacere. Ma questo non ci porta a eleggerlo nostro rappresentante, o Presidente del Consiglio dei Ministri. O per lo meno, questo non dovrebbe succedere. Non chiediamo agli italiani nemmeno di essere migliori, ma almeno di non eleggere il rappresentante degli interessi del loro Basso Ventre Collettivo. Un leader, non un capocomico; un diplomatico, non un intrattenitore; un esempio per i giovani, non il vecchietto bavoso. Cosa c'è di male in un discorso del genere.
C'è che forse non è più un discorso di sinistra. Dietro la parola “Autorevole” c'è pur sempre “Autorità”. Il leader che viene preso ad esempio dai giovani, proiezione del Padre, ci riporta a un modello pre-berlusconiano di società che è fondato sulla gerarchia, e che se non è cattolico è fascista addirittura.
D'altro canto educazione ed autorevolezza dei leader erano chiodi fissi anche del vecchio PCI. D'altro canto, ehi, date un'occhiata in giro. La sbornia consumistica è finita: il berlusconismo è un rito edonistico che sopravvive a sé stesso. Lo scontro prossimo venturo sarà tra chi, come Berlusconi, insisterà per considerarci “undicenni neanche tanto intelligenti”, mero bacino di consumo, e chi proverà per primo a proporci qualcosa di nuovo. Prima o poi gli italiani dovranno accantonare le fantasie di lusso sfrenato, rimboccarsi le maniche e combinare qualcosa: cosa, dal momento che nessuno per anni gli ha insegnato nulla? C'è già una certa voglia di autorevolezza in giro. Ce ne sarà sempre di più nei prossimi anni.
È triste che tutta questa voglia debba essere intercettata da un personaggio come Gianfranco Fini. Triste perché Fini, di autorevole, ha solo la facciata messa tempestivamente in piedi da quando si è trovato senza partito di riferimento. Ma dietro c'è sempre la solita banderuola, l'uomo che può cambiare opinione sugli stranieri, sulle guerre coloniali, su Israele, sui grandi statisti del Novecento, a seconda della convenienza del minuto secondo.
A questo punto, se il Pd nel frattempo fosse diventato il partito della serietà, del primato dell'educazione, con candidati autorevoli e credibili, potrebbe sfondare anche a destra. Non al centro, dove ormai non cresce più l'erba, e il gioco è sempre a chi riceve più prontamente i diktat dei vescovi. A destra, dove c'è una certa idea del rispetto per l'autorità, e quindi la necessità di individuare padri autorevoli, e Berlusconi non lo è; La Russa non lo è; Capezzone non lo è; nessuno che negli anni scorsi si sia inchinato al clown di Arcore lo è.
Quello che vorrei estrarre da questi pensieri ad alta voce è che l'esigenza di una leadership autorevole può essere anche un problema “di destra”, ma non è per questo meno necessaria, meno legittima, meno importante. Senz'altro è un mio problema, e mi è piaciuto che Franceschini lo mettesse sul piatto della bilancia. Certo, i problemi della sinistra sono altri. Ma magari ne parliamo un'altra volta, con idee più chiare.
lunedì 8 giugno 2009
Gelateria bipolare
(In tv, tripudi di analisi sulle elezioni. Scendo in strada: una famiglia di cinesi, due pachi, un magrebino. Qual è il Paese reale, quello in cui vivo io? Gran parte di chi passeggia qua fuori non ha votato. Buona parte non risulta nemmeno nelle statistiche sull'astensione. Ma vi sembra normale che essere italiani sia una caratteristica innata, come essere anemici, o Scorpione? A me no, e forse questo dovrebbe chiudere il discorso. Voto agli immigrati, subito. E non m'interessa se voteranno a destra. A questo punto forse preferirei una Lega Nord con candidati nordafricani a un Pd ariano).
C'è una gelateria di provincia che ha un problema di gestione: non riesce letteralmente a fornire un servizio (=gelato) decente ai suoi clienti. La nocciola è troppo dura, non si spalma sul cono. La fragola per contro si squaglia immediatamente sulle scarpette delle bambine che piangono. Chi chiede il pistacchio rischia l'intossicazione. I guadagni al netto delle spese sono scarsi.
Il gelataio si pone interrogativi seri sulla sua vocazione, finché una sera, durante una vacanza all'estero, ha un'intuizione: bisogna ridurre i gusti, come in Inghilterra. “Ma certo, come ho fatto a non pensarciprima. Il problema non ero io, ma il mio retaggio culturale che mi obbligava a tenere dieci vaschette per soddisfare i variegati gusti di un pubblico che poi, se vai bene a vedere, alla fine non sa cosa vuole e sceglie sempre cioccolato o limone. Col risultato che, appunto, la temperatura di congelamento della nocciola non andava bene per la fragola, e il pistacchio andava a male perché era un gusto di nicchia e restava nella vaschetta per mesi”.
Una volta tornato a casa, si affretta a lanciare la sua nuova gelateria bipolare: al posto di tutte le vaschette colorate, due vasche enormi: limone e cacao. Sulle prime la gente mugugna: non siamo mica in Inghilterra qui, se vogliamo nocciola non ci puoi dire che tanto il cacao è la stessa cosa. Alla fine però quasi tutti si adeguano, anche perché alternativa non ce n'è.
A dire il vero una c'è: la grande fiera europea, un carrozzone che passa ogni cinque anni, e comprende una gelateria itinerante a 12 gusti. Ora, nel paesino è vero che sono di poche pretese, ma quella volta che passa il carrozzone è normale che si sbizzariscano: come puoi biasimarli? Anche i patiti del cioccolato, li vedi passeggiare con certi mostri, mango+stracciatella con spruzzatina di curry. Poi la fiera se ne riparte, e riapre la gelateria bipolare, col suo limone e il suo cacao.
V'è piaciuta la parabola? Altre da servirvi oggi non ne ho, mi dispiace. Mi sto specializzando in storielle cretine? È possibile; voi da parte vostra non cedete all'ovvio di chi scopre in queste ore che gli italiani non sono bipolari, pensate un po', perché alle europee votano per i partitini. Non è niente di nuovo, davvero: le europee servono a questo. Sono la nostra riserva di proporzionalità, la sagra del partitino che ogni cinque anni per un pomeriggio ci fa sentire speciali. Ma passa subito, e il giorno dopo torniamo bipolari: berlusconiani o anti, comunisti o anti, antianti o anti.
Il punto è che gli italiani non sono necessariamente bipolari o frazionati: sono un insieme enorme di persone che reagiscono a domande. Se le domande pongono un'alternativa secca (“Amate il Berlusconi Way of Life o no?” “Più Stato o più individuo?” “Ragione o religione?”) si polarizzeranno; se la domanda è vaga “Chi sei tu?”; “Che futuro vorresti per i tuoi figli?” si disperderanno in una pletora di risposte vaghe. Le Elezioni Europee sono una domanda vaga. Ecco forse spiegato il paradosso delle elezioni supernazionali che in assoluto diventano le più locali: quelle dove possiamo toglierci lo sfizio di votare chi ci assomiglia di più. E questo magari potrebbe anche servire da risposta a chi si lamenta, puntualmente “che non si parla mai dell'Europa”: di che Europa dovremmo parlare? A dire il vero un'idea di Europa ce l'abbiamo tutti, ed è meno nebulosa di quanto si creda: per i leghisti è quella cosa in cui i turchi non devono entrare; per Di Pietro è una serie di leggi a cui anche gli intrallazzoni italiani devono sottostare. Tutto qui, ma c'è veramente molto da aggiungere?
Aspettate, mi è venuta un'altra metafora, magari è quella buona: se le elezioni legislative sono il momento di massima polarizzazione, quello in cui tutto il nostro coefficiente di sovranità si concentra in due schieramenti, le europee sono al punto opposto del ciclo: nel momento in cui sentiamo meno la necessità di compattezza e ci liberiamo alle nostre esigenze identitarie, estetiche, culturali, ecceccecc. Da questo punto di vista non ha nemmeno tantissima importanza dove rifluisce il nostro voto tra una legislativa all'altra: ai leghisti di lotta e di governo o a Casini, o a nessuno; non importa: tra quattro anni tornerà da Papi – se Papi tiene. Variabile indipendente.
Stesso discorso a sinistra: se persino i più onesti tra gli uomini del Pd non stanno stracciandosi le vesti per quel vergognoso 26% è perché sanno che il risultato è più che sufficiente a tenere la posizione di maggior partito di centrosinistra intorno al quale, nel momento di massima contrazione (tra quattro anni, o anche prima) si coalizzeranno volenti e nolenti i radicali, i dipietristi, i vendoliani, i non votanti, tutti quelli che non si rassegnano a mandar già l'amaro cacao governativo. Andrà così? Andrà così.
Sarà necessariamente una nuova battaglia pro o contro Berlusconi? Non è detto: B potrebbe anche non esserci più. Oppure da qualche parte potrebbe saltare fuori un leader, un obama capace di sintetizzare la linea di un centrosinistra italiano che a ben vedere non ha più contraddizioni di quello inglese o tedesco (ha semplicemente una storia più complessa di faide interne). Anzi, in linea teorica non sarebbe nemmeno necessario un grande leader: potrebbe esserci una svolta generazionale, una presa di coscienza collettiva... sì, sarebbe fenomenale, ma si fa molta meno fatica a puntare tutto su un leader. La Serracchiani? Perché no. Io non vado matto per il concetto di leadership, e il culto della personalità non mi è mai riuscito bene, ma l'esempio americano mi sembra l'unico che abbia funzionato negli ultimi anni, mi piaccia o no. Farò il possibile per farmelo piacere – ma ogni cinque anni fatemi prendere un cono meringa-papaya. Uno solo. Poi dicono che non serve, l'Europa.
domenica 7 giugno 2009
¡Ariba el Psoe!
Mi è capitato molte volte in questi anni – più o meno una volta l'anno – di scrivere inviti accorati e un po' molesti agli astensionisti di sinistra, affinché compiessero il sacro dovere di mettere una crocetta contro Berlusconi e tutto quel che rappresenta.
Poi, quando arrivava il giorno, andavo anch'io a mettere una crocetta. Quasi mai ho aggiunto una preferenza, ed è tempo che me ne vergogni pubblicamente. Le preferenze sono come l'ossigeno: ci fai caso soltanto quando comincia a mancare. Le ritenevamo pleonastiche, quando non causa di derive clientelari: poi, quando ce le hanno tolte (con la scusa che ormai non le usava più nessuno) ci siamo accorti che era finita la democrazia. E questo è successo proprio grazie ai quasi-astensionisti come me – quelli che credevano che il voto consistesse in una crocetta e ci pontificavano anche su. Chiederei scusa, se servisse a qualcosa. Ma l'unica cosa concreta che posso fare è usare le preferenze domani: forse è l'ultima occasione che ho.
Le preferenze rendono il voto aritmeticamente più pesante: scrivere tre nomi significa votare per tre persone. Aver rinunciato alla possibilità di pesare di più, per tutti questi anni, è stato sorprendentemente stupido da parte mia. E voi magari venivate qui a farvi un'idea. Andate via.
A 24 ore dalla chiusura dei seggi
Siete ancora qui? Per quel che può interessarvi, sto oscillando (non da ieri) tra Pd e Sinistra e Libertà. In principio queste mi sembravano le elezioni giuste per punire il Pd, che fino all'acclamazione di Franceschini le ha sbagliate tutte (acclamazione inclusa). Poi è successo qualcosa, ma non sono del tutto sicuro che sia qualcosa di serio. È successo che Franceschini mi ha sedotto. Ovvero: potrei scrivere un lenzuolo di argomentazioni oggettive per cui oggi trovo che F. sia un leader credibile, ma sotto il lenzuolo ci sta una seduzione mediatica del tutto simile a quella che colpisce gli zombie berlusconiani. Loro inseguono lo spettro del Papi col Jet
D'altro canto, votare Sinistra e Libertà ha i suoi pro e i suoi contro:
Perché sì | Perché no |
Per protesta nei confronti del Pd, che (fascinazione franceschiniana a parte) se lo merita tuttora: per essere stato, sin dal principio, poco Partito e poco Democratico. | Significa prendere parte a una lotta patetico-tribale tra ex e post comunisti. Preferirei di no; anche se credo che l'ultimo congresso di Rifondazione, con Vendola accerchiato dalle mozioni di minoranza, sia stato una porcheria. Certo, sarebbe terribilmente triste se l'unico eurodeputato italiano a sinistra del Pd fosse diliberto-ferreriano. |
Per stima nei confronti di un leader: Vendola mi sembra uno dei personaggi più promettenti all'orizzonte (e non ha nemmeno l'accento emiliano). | Votare S&L significa votare socialista. Ahimè, sì, c'è ancora il garofano nello stemma di S&L: è piccolo piccolo ma c'è. Guardiamo al lato positivo: Boselli almeno se n'è andato, o meglio si è rassegnato a non esserci mai stato. |
Per un'esigenza di riequilibrio a sinistra, sacrosanta dopo la catastrofe dell'anno scorso. E tuttavia non penso che S&L possa arrivare alla soglia del 4% sotto la quale il mio sarebbe un voto sprecato. Ci sto ancora pensando: votare S&L è una scommessa, e le scommesse si fanno d'istinto. |
Alla fine forse la possibilità di accedere on line alle informazioni sui candidati di S&L sarà decisiva; mentre il Pd ha buttato via fior d'euro per un sito disastroso. Non per fare il technosnob, ma affideresti tua figlia a gente che paga quei soldi per un sito così? E l'europarlamento glielo affideresti?
A proposito dell'europarlamento: è maledettamente importante. Le normative UE ce le troviamo intorno tutti i giorni. Detto questo, non capisco perché siamo costretti a votare candidati italiani. Ovvero: capisco perché gli inglesi preferiscano eleggere candidati inglesi, e i polacchi dei polacchi, ma se io italiano volessi votare PSOE? Se ritenessi che un candidato andaluso del PSOE rappresenterà i miei interessi meglio di un candidato del PD, perché non dovrei scegliere lui? Sul serio, perché no? Volevo anche scriverci un pezzo su, poi mi hanno ricoverato. Adesso sto meglio, grazie.
Scherzi a parte, l'unico modo per focalizzare seriamente le euroelezioni su Bruxelles è piantarla lì con le liste italiane. Dovremmo avere sulla scheda PPE, PSE, Europa delle Nazioni, eccetera. Certo, occorrerebbe una rivoluzione copernicana, che per adesso all'orizzonte non c'è, ma ehi, siamo nel 2009, tre giorni fa hanno NAZIONALIZZATO LA GENERAL MOTORS, e c'è un presidente USA nero che tiene lezioni di teologia islamica al Cairo. A questo punto le prossime elezioni italiane potrebbe anche vincerle il PSOE.
lunedì 1 giugno 2009
Ortocrazia
Sarà una mia ossessione privata e professionale, ma l'unica cosa che mi sembra degna d'interesse nella lettera di Gino Flaminio al Corriere è l'ortografia.
Chiarisco subito: non trovo niente di scandaloso negli errori di Flaminio. Anzi, per essere un operaio non se la cava nemmeno troppo male: basta confrontare la sua punteggiatura con quella del "ragazzo Giuseppe" che due anni fa scrisse a Repubblica per lamentarsi degli articoli sensazionalisti sulla scuola. Giuseppe in quell'occasione rappresentava la scuola "buona", quella degli studenti che studiano e si danno da fare; ebbene, azzeccava meno virgole di Flaminio, operaio appassionato di kickboxing con precedenti penali. Questo per dire che l'ortografia è un'emergenza interclassista, ormai.
Il punto è un altro. I giornali esistono da secoli. Da secoli ricevono lettere sgrammaticate dai loro lettori. E da secoli le ripubblicano corrette, in segno di rispetto per chi ha scritto e per chi rileggerà. Finché un giorno il Corriere non decide di pubblicare "nella forma originale nella quale ci è stata consegnata", la lettera dell'ex di Noemi Letizia. Perché? È abbastanza ovvio: perché se l'avessero corretta non sarebbe più sembrata vera. L'ortografia corretta minacciava la credibilità della fonte.
Se ci riflettete, è una situazione paradossale. Flaminio avrà senz'altro qualcuno che cura i suoi interessi (quel minimo da mettergli a posto virgole e accenti); ma è costretto a scrivere sgrammaticato perché altrimenti potremmo credere che non è lui, ma qualcuno che lo imbecca.
Credo che il paradosso dipenda tutto dalla decisione di affidare alla stampa un messaggio concepito e prodotto per un pubblico audiovisivo. Se Flaminio avesse mandato un video, tutti avrebbero accettato la sua parlata napoletana come testimonianza di genuinità. Ma scrivere significa ridurre quel che sei a una catena di parole nere su fondo bianco. Non si sentirà più l'accento tipico, né la timidezza di chi si vorrebbe tirare fuori da una trappola troppo grande. Se gli avessero corretto perfino l'ortografia, sarebbe sembrato un normale lettore del Corriere - e questo rischio non potevano assolutamente correrlo.
Quando da bambino cominciai a leggere giornali (tutti i giornali, Gazzetta dello sport per prima), notai subito una cosa curiosa: i personaggi intervistati sembravano tutti più intelligenti, compresi i ciclisti. Non c'era paragone tra Moser intervistato su un quotidiano e uno aggredito da un microfono in tv. Il primo avrebbe potuto dare lezioni d'italiano al secondo.
Ho sempre apprezzato molto questa cosa. Nella vita capita a tutti di sbagliare i congiuntivi, ma i giornalisti che riportano le nostre idee fanno bene a correggerli. Ci mettono in giacca e cravatta, ci trattano da pari. La democrazia è essenzialmente questo: nessuno pretende che tu operaio sappia mettere le virgole, ma se hai qualcosa d'interessante scrivimelo, e io redattore lo rimetterò a posto. A ognuno il suo mestiere.
Il Gino Flaminio che abbiamo conosciuto ai tempi dell'intervista di Repubblica aveva subito un intervento del genere: si capiva che i suoi pensieri erano stati rimessi a posto, e ciononostante rimanevano i suoi.
Il Flaminio di oggi, che non sa dove mettere l'accento e urla pestando il caps lock, sembrerà a molti più genuino. Soprattutto a chi da anni ha deciso che noi non siamo la nostra foto migliore, ma il filmatino goliardico che abbiamo messo su youtube; a chi vuole le nostre ragazze con l'ombelico in fuori; a chi ci ha insegnato ad applaudire ai funerali. La plebe deve stare al suo posto: si pubblichi senza correggere.