No, un'altra polemica sull'Inno no...
E invece sì. Cambiamo l'inno, sull'Unità.it (si commenta qui).
E se avanza un po' di tempo si può anche indugiare fino alla quarta strofa, per il gusto di cantare che “dall'Alpi a Sicilia / dovunque è Legnano”. Dovunque, capito?
C'è un antico inno, nato nell'Italia settentrionale, che glorifica la vittoria della Lega Lombarda. C'è un Presidente di regione a cui non piace, e che ha chiesto di sostituirlo con un coro di ebrei sconfitti ed esiliati. A raccontarla così può sembrare una barzelletta, e in effetti lo è. Il coro degli esuli ebrei è, ovviamente, il Va' Pensiero; il canto che glorifica la Lega Lombarda è Fratelli d'Italia (scritto e musicato da due genovesi), che nella quarta strofa cita espressamente Legnano, il luogo della vittoria dei padani su Federico Barbarossa. Il Presidente a cui non piace è Zaia, Lega Nord. Proprio quel partito che di Legnano ha fatto una religione. Umberto Bossi ha persino fatto una comparsata nel kolossal di Martinelli che celebra Legnano: quel “Barbarossa” che è costato dodici milioni (un milione e seicentomila pubblici) e ne ha incassati la metà.
E insomma, è successo che durante l'inaugurazione di una scuola elementare Zaia abbia chiesto di sostituire l'inno nazionale col Va' Pensiero. La banda lo avrebbe poi suonato in seguito, mentre il ministro stava già perlustrando i locali. È una notizia? Nel momento in cui sto scrivendo campeggia sull'homepage dei principali quotidiani italiani, quindi sì, è una notizia. Anche se per la verità non ci dice molto di nuovo. L'insofferenza dei leghisti per Mameli/Novaro è cosa nota. E poi a Bagdad c'è una rapina-attentato, il Belgio è sull'orlo della secessione, Berlusconi è in Libia... ma via, perfino la cronaca di Ghana-Serbia sembra più interessante dell'ennesima polemica sull'Inno. Eppure vedrete che nei prossimi giorni se ne riparlerà.
Perché siamo in estate, ormai, e la Stagione delle Sparate Leghiste è cominciata. Come quella di caccia, ogni anno si allarga un po'. L'anno scorso fu a luglio inoltrato che si cominciò a parlare seriamente di corsi di dialetto nelle scuole. Poi ci fu la sparata sulle bandiere regionali (venti drappi anonimi e quasi tutti bruttini che avrebbero dovuto sovrapporsi al tricolore) e, naturalmente, quella sull'Inno. Polemiche trite senza nessun contatto con la realtà, buone giusto per ispirare due chiacchiere sotto l'ombrellone, magari per vendere qualche copia della Padania in più al Forte o a Milano Marittima. Quest'anno abbiamo cominciato prima. Forse per recuperare quel brutto colpo all'immagine che fu la paventata soppressione della provincia di Vercelli; forse perché cominciavano i Mondiali e l'occasione era troppo ghiotta... e in effetti a dare il la è stato Calderoli, con un'innovativa proposta per sanare il debito pubblico: tagliare i premi ai calciatori. Una sparata perfetta: il massimo di visibilità col minimo di conseguenze pratiche. Ora si riparte con la polemica con l'Inno, ormai ben più trita dell'Inno stesso.
È difficile ignorare le sparate leghiste estive. In realtà molti ci guadagnano qualcosa. I giornalisti ci rimediano qualche titolo buffo; gli alleati dei leghisti possono approfittarne per rimarcare le proprie differenze e mostrarsi difensori dei simboli minacciati: giù le mani dal tricolore / dall'inno / ecc. (vedi le puntuali dichiarazioni di La Russa). E i leghisti intanto fanno parlare di sé, disotterrando quell'anima infantile e avventurosa che non si stanca di giocare coi simboli, e in trent'anni ha inventato bandiere, confini, religioni (i riti celtici, i pellegrinaggi alla sorgente del Po, ecc), perfino nazionali di calcio. È un'anima che durante il resto dell'anno passa in secondo piano: tra autunno e primavera i leghisti ci tengono a mostrare che sono gente coi piedi (grossi) per terra, con soluzioni concrete a problemi veri. Dopo tanti anni però i problemi veri restano ancora lì, più concreti che mai: Tremonti, il ministro del PdL più vicino alla Lega, continua a tagliare risorse agli enti locali; e intanto il federalismo fiscale continua a restare sulla carta. Non resta che rimettere gli elmi di plastica, rifare una marcia sul Po, organizzare un dibattito sull'importanza del dialetto, magari finanziare un'altra fiction su qualche oscuro federalista medievale o celtico. La stampa seguirà, come segue chiunque le spari grosse: arte di cui Bossi è indiscusso maestro.
Criticare i leghisti nel merito significa fare il loro gioco. Per di più in questo caso si rischia di passare per avvocati di un inno che, soprattutto per quanto riguarda il testo, lascia molto a desiderare. Ma se le sparate leghiste sono un'operazione che coinvolge soltanto l'immaginario degli elettori, l'unica tattica possibile è batterli in fantasia. Non abbiamo anche noi un miglior inno da proporre? E se proprio siamo affezionati a Mameli, non potremmo almeno evitare quegli arcani riferimenti ai misteriosi Scipio e Vittoria, coi loro elmi e le loro chiome, quell'equivoco “stringiamci a coorte” (con due “o”: cambia tutto se ne togli una) e quel “siam pronti alla morte” che ormai è roba da fanatici jihadisti? L'anno scorso proponevo una soluzione semplice ed economica: tagliamo una strofa, partiamo dalla seconda. Forse è meno cantabile, ma è molto più attuale, ed è la migliore risposta che si possa dare alle sparate leghiste.
E insomma, è successo che durante l'inaugurazione di una scuola elementare Zaia abbia chiesto di sostituire l'inno nazionale col Va' Pensiero. La banda lo avrebbe poi suonato in seguito, mentre il ministro stava già perlustrando i locali. È una notizia? Nel momento in cui sto scrivendo campeggia sull'homepage dei principali quotidiani italiani, quindi sì, è una notizia. Anche se per la verità non ci dice molto di nuovo. L'insofferenza dei leghisti per Mameli/Novaro è cosa nota. E poi a Bagdad c'è una rapina-attentato, il Belgio è sull'orlo della secessione, Berlusconi è in Libia... ma via, perfino la cronaca di Ghana-Serbia sembra più interessante dell'ennesima polemica sull'Inno. Eppure vedrete che nei prossimi giorni se ne riparlerà.
Perché siamo in estate, ormai, e la Stagione delle Sparate Leghiste è cominciata. Come quella di caccia, ogni anno si allarga un po'. L'anno scorso fu a luglio inoltrato che si cominciò a parlare seriamente di corsi di dialetto nelle scuole. Poi ci fu la sparata sulle bandiere regionali (venti drappi anonimi e quasi tutti bruttini che avrebbero dovuto sovrapporsi al tricolore) e, naturalmente, quella sull'Inno. Polemiche trite senza nessun contatto con la realtà, buone giusto per ispirare due chiacchiere sotto l'ombrellone, magari per vendere qualche copia della Padania in più al Forte o a Milano Marittima. Quest'anno abbiamo cominciato prima. Forse per recuperare quel brutto colpo all'immagine che fu la paventata soppressione della provincia di Vercelli; forse perché cominciavano i Mondiali e l'occasione era troppo ghiotta... e in effetti a dare il la è stato Calderoli, con un'innovativa proposta per sanare il debito pubblico: tagliare i premi ai calciatori. Una sparata perfetta: il massimo di visibilità col minimo di conseguenze pratiche. Ora si riparte con la polemica con l'Inno, ormai ben più trita dell'Inno stesso.
È difficile ignorare le sparate leghiste estive. In realtà molti ci guadagnano qualcosa. I giornalisti ci rimediano qualche titolo buffo; gli alleati dei leghisti possono approfittarne per rimarcare le proprie differenze e mostrarsi difensori dei simboli minacciati: giù le mani dal tricolore / dall'inno / ecc. (vedi le puntuali dichiarazioni di La Russa). E i leghisti intanto fanno parlare di sé, disotterrando quell'anima infantile e avventurosa che non si stanca di giocare coi simboli, e in trent'anni ha inventato bandiere, confini, religioni (i riti celtici, i pellegrinaggi alla sorgente del Po, ecc), perfino nazionali di calcio. È un'anima che durante il resto dell'anno passa in secondo piano: tra autunno e primavera i leghisti ci tengono a mostrare che sono gente coi piedi (grossi) per terra, con soluzioni concrete a problemi veri. Dopo tanti anni però i problemi veri restano ancora lì, più concreti che mai: Tremonti, il ministro del PdL più vicino alla Lega, continua a tagliare risorse agli enti locali; e intanto il federalismo fiscale continua a restare sulla carta. Non resta che rimettere gli elmi di plastica, rifare una marcia sul Po, organizzare un dibattito sull'importanza del dialetto, magari finanziare un'altra fiction su qualche oscuro federalista medievale o celtico. La stampa seguirà, come segue chiunque le spari grosse: arte di cui Bossi è indiscusso maestro.
Criticare i leghisti nel merito significa fare il loro gioco. Per di più in questo caso si rischia di passare per avvocati di un inno che, soprattutto per quanto riguarda il testo, lascia molto a desiderare. Ma se le sparate leghiste sono un'operazione che coinvolge soltanto l'immaginario degli elettori, l'unica tattica possibile è batterli in fantasia. Non abbiamo anche noi un miglior inno da proporre? E se proprio siamo affezionati a Mameli, non potremmo almeno evitare quegli arcani riferimenti ai misteriosi Scipio e Vittoria, coi loro elmi e le loro chiome, quell'equivoco “stringiamci a coorte” (con due “o”: cambia tutto se ne togli una) e quel “siam pronti alla morte” che ormai è roba da fanatici jihadisti? L'anno scorso proponevo una soluzione semplice ed economica: tagliamo una strofa, partiamo dalla seconda. Forse è meno cantabile, ma è molto più attuale, ed è la migliore risposta che si possa dare alle sparate leghiste.
Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi
Perché non siam Popolo
Perché siam divisi
Raccolgaci un'Unica
Bandiera una Speme
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò
E se avanza un po' di tempo si può anche indugiare fino alla quarta strofa, per il gusto di cantare che “dall'Alpi a Sicilia / dovunque è Legnano”. Dovunque, capito?