Contro ogni aspettativa, La nostra vita di Luchetti è un bel film. Sì, parla di periferie. Sì, sì, l'originalissimo spunto è un lutto in famiglia. Eppure stavolta la baracca funziona. Bravi gli attori, originale la storia, buona la sceneggiatura - a questo punto, cari critici, manca solo una cosa.
Una bella stroncatura. (Ho una teoria #26 è sull'Unità.it. Si commenta sempre qui). (E Brecht cosa c'entra? Brecht c'entra sempre).
Caro critico di sinistra, c'è un favore che dovresti farmi. Ha a che vedere col cinema italiano – sì, lo so, la solita tristezza. I nostri autori sono troppo autoindulgenti, e hanno paura di rischiare. Quando si rendono conto che non hanno niente da dire, cercano di orecchiare quel che dice “la gente” al bar, o al centro commerciale. Ma si vede da lontano che non è il loro mondo: non riescono a capire cosa ci sia d'interessante in tutta quella gente che chiacchiera del più e del meno – così si annoiano, e scambiano quella noia per realismo.
Caro critico, l'avrai notato anche tu – ormai il personaggio-tipo del cinema italiano è un individuo della classe media che fa un lavoro normale, ha una famiglia normale e un po' noiosa che tradisce in modo altrettanto normale e noioso. Perché dovremmo andare a vedere film del genere? “Per riconoscerci”, dicono. Ma per quello teniamo già gli specchi in casa, grazie: il biglietto lo pagheremmo per immedesimarci in persone a cui è capitata una vita un po' più eccitante della nostra.
Eppure, caro critico, devi riconoscere una cosa: in tutto questo panorama sconfortante, almeno un paio di film decenti all'anno riusciamo sempre a piazzarli. Il problema è saperli riconoscere – e poi presentare al pubblico giusto. E qui entri in ballo tu, caro critico, come si diceva una volta, militante. Devi sapere che in questi giorni è uscito questo film, La nostra vita. Il regista e gli altri autori li conosci, sai che hanno fatto cose decenti e cose no. Questo sulla carta era un grosso rischio: la solita famiglia qualunque della solita periferia romana qualunque. Il lutto famigliare da esorcizzare per la stra-ennesima volta. Insomma, ci voleva coraggio per entrare in sala.
E invece stavolta, in un qualche modo, la storia gira. Da subito. Per dire, dopo cinque minuti ci erano già scappati un paio di morti. Sembra una cosa da nulla, lo so, ma per fare un paragone, nell'ultimo di Soldini dopo cinque minuti i due protagonisti erano riusciti sì e no a scambiarsi i numeri di telefono (il resto del film consisteva nei loro tentativi di scoparsi di nascosto vergognandosene). E invece in questo film, caro critico, il personaggio all'inizio sembra davvero un tizio banale come e più di noi: fa il capomastro, porta la famiglia al centro commerciale, ascolta Vasco... ma poi gli capita questo tremendo lutto e lui reagisce in un modo strano, un modo in cui forse io e te non reagiremmo, ma chi lo sa: s'indurisce, decide di entrare nel gioco dei grandi. Tenta il ricatto, si fa concedere un subappalto, vuole salire il gradino più grosso della scala sociale. Quello che sognavano i personaggi di Balzac, e poi della vecchia Commedia all'Italiana. Quello che invece i personaggi del cinema italiano di oggi non fanno più, perché sono troppo concentrati a piantarsi noiosissime corna o a piangere il solito lutto in famiglia. Il protagonista di “La nostra vita” invece si ricaccia le lacrime negli occhi e tira fuori i canini. In realtà è chiaro da subito che non li ha abbastanza lunghi, ma è bello vedere per una volta un ragazzo normale che studia da carogna. E in fondo è una cosa che deve succedere tutti i giorni, ai nostri amici ed ex compagni, magari è successo pure a noi: ci siamo fatti furbi, o ci abbiamo provato, abbiamo mandato a quel paese gli ultimi brandelli di morale e abbiamo cercato di tagliare la nostra fetta.
Siamo diventati cattivi, anche se registi e sceneggiatori sembra non se ne siano accorti. Loro sono convinti che noi siamo brava gente un po' noiosa, e invece nei nostri cantieri ricattiamo, truffiamo, sfruttiamo manodopera straniera. Perlomeno ci proviamo. E quando le cose vanno male – ma era chiaro che sarebbero andate male – non impariamo la lezione. Perlomeno, il protagonista di questo film (interpretato da Elio Germano, molto bravo c'è ancora bisogno di dirlo?) non impara un bel niente. Chiede aiuto alla solita rete di salvataggio, la famiglia: e poi si sa come va l'Italia: c'è sempre da qualche parte (a Frosinone) una squadra di manovali che può rimediare a qualsiasi guaio. Basta che li paghi sull'unghia. In nero.
Questo fatto, che il protagonista non riesca a capire i suoi errori, mi ha intrigato tantissimo, caro critico: mi ha ricordato Brecht, un autore che conosci meglio di me. In particolare Madre Courage, la vivandiera che attraversa la guerra dei Trent'anni convinta di poterci speculare su. Perderà tutti i suoi figli, senza capire dove ha sbagliato. Brecht fu molto criticato per questo finale, e reagì con parole che senz'altro ricorderai: non m'importa di aprire gli occhi alla Courage, scrisse; l'importante è che li apra lo spettatore. Caro critico, questo deve fare il cinema: farci capire, farci reagire, non piazzarci davanti personaggi che capiscono o reagiscono. Ma questo già lo sai. E allora ti chiederai perché ti scrivo.
Ecco, caro critico, si tratta di questo: a Luchetti stavolta è uscito un film decente, straziante e cattivo. Non un capolavoro, ma un buon inizio. Che cosa gli manca? Una stroncatura d'autore, di quelle di una volta. Così, giusto per evitare che diventi quello che non dev'essere, un trastullo da radicalscic. E invece è un film per tutti, con dialoghi semplici, da terza media, con Vasco Rossi e la playstation, e Raul Bova nella sua più credibile interpretazione. Un film che si merita di più del solito pubblico di appassionati: una mina inesplosa di dubbi, senso critico, consapevolezza, che qualche funzionario rai e mediaset potrebbe essere così distratto da infilare nel palinsesto serale o pomeridiano. L'essenziale a questo punto è stroncarlo – lo farei io se fossi uno importante, ma non mi conosce nessuno. Così ho pensato a te, caro critico. Me lo faresti questo favore? Grazie sin d'ora.