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venerdì 12 dicembre 2003

Piccola città, piccolo terrorista

Io, in realtà, di Al Khatib Muhannad Shafiq Ahma non so quasi nulla.
(Neanche come si scrive esattamente il nome).
So quello che ho trovato su Internet (reuters-Sassuolo 2000) – e che stamattina leggeremo sui giornali: per esempio, che è nato la vigilia di Natale del 1969, e che quindi stava per compiere trentaquattro anni. Il fatto che avesse un passaporto giordano – su cui però c’era scritto “nato a Kuwait City”, mi fa pensare che i suoi genitori fossero profughi palestinesi. Ma magari mi sbaglio.
Sarebbe dunque un nato profugo, Al Khatib, ma di quelli che hanno rinunciato all’utopia del ritorno nei Territori e sono partiti per l’Europa in cerca di miglior fortuna.
L’Europa (Modena, per la precisione) non sembrerebbe esser stata molto accogliente con Al Khatib. Il suo permesso di soggiorno stava per scadere, e rinnovarlo sarebbe stato difficile perché non aveva un posto fisso ma soltanto impieghi saltuari, e piccoli precedenti per “rissa o fatti di violenza”. Niente a che fare con droga e alcool, comunque.
Ma questa è una faccia della medaglia. Dall’altra bisogna dire che Al Khatib soffriva di manie depressive e psicosi, e che a suo modo la città lo stava aiutando, coi servizi sociali e gli psicofarmaci.
Inutilmente, perché a un certo punto Al Khatib ha deciso di farla finita. Lo ha anche detto a un amico, una sera, mentre stava disteso sul suo letto vestito di tutto punto: ha detto che nella vita aveva “sbagliato tutto” e che si sarebbe “tolto di mezzo”. E ieri mattina ha mantenuto la promessa: si è dato fuoco nella sua macchina, facendosi poi esplodere quando il fuoco è arrivato alla bombola del gas. Una storia di disperazione come tante.

Diventa però un caso nazionale, perché Al Khatib aveva parcheggiato la sua Peugeot in via Blasia, all’imbocco di Piazza Mazzini, insomma accanto a una delle sinagoghe più grandi e belle d’Italia. E non può essere stato un caso, perché via Blasia è completamente chiusa al traffico, e all’altro angolo della piazza, di giorno e di notte, staziona una pattuglia: a turno carabinieri, polizia o guardie di finanza. Sono stati poliziotti, ieri mattina, a sentire la macchina frenare, la puzza di fumo, e a tentare anche un salvataggio con l’estintore.
Da qui in poi le versioni su internet divergono, anche sullo stesso sito, ed è difficile capire qual è la conclusiva. Secondo alcuni Al Khatib ha provato a scappare, addirittura uscendo dalla macchina: poi, vedendo i poliziotti, è tornato dentro e si è fatto esplodere. A me sembra un’assurdità: non si decide un suicidio così, in dieci secondi, per evitare grane con la polizia.
L’altra versione – la più plausibile, secondo me – è che all’arrivo dei poliziotti Al Khatib stesse già bruciando. Sull’auto comunque non si sono trovate altre taniche di benzina o cariche di esplosivo, come si è sentito dire nei bar per tutto il giorno. C’è voluto il buon senso degli investigatori a far presente che un kamikaze, se vuole fare una strage, non si fa trovare sul posto alle cinque del mattino. Alla fine della giornata tutte le dichiarazioni concordano (polizia, sindaco, Giovanardi che approfitta per fare uno spot alla sua associazione): è stato un suicida, non un terrorista suicida. Ha agito da solo, e non voleva uccidere nessun altro al di fuori di sé. Ma voleva farlo lì, dove l’ha fatto: nel ghetto di Modena, dove ora c’è Piazza Mazzini.

Su Piazza Mazzini io so invece parecchie cose.
I giornali scriveranno che a ottocento metri di distanza, nell’Accademia Militare, s’inaugurava l’anno accademico. Pura coincidenza, perché in fondo Piazza Mazzini è a ottocento metri di distanza da tutto quello che si trova in centro a Modena (compresa casa mia, dalla quale veramente ho traslocato la settimana scorsa, entrando spesso in centro in macchina alle ore piccole e senza permesso, come ha fatto lui). Piazza Mazzini è il cuore di Modena, ma il cuore di Modena è stato a lungo qualcosa di lurido e vergognoso: il ghetto degli ebrei, istituito dagli Estensi nel Seicento, e chiuso soltanto quando se ne andarono nel 1861. Vi vivevano, allora, circa un migliaio di ebrei modenesi. A quei tempi non c’era Piazza Mazzini, ma una serie di caseggiati che toglieva la visuale della sinagoga. Viale Blasia arrivava fino alla Via Emilia, e lì era chiusa da un cancello, che veniva chiuso di notte.
Nel 1903 si pensò di demolire le case e fare una piazza, che desse un po’ spazio a questa città di strade strette, e portici che non facevano passare i tram. Nelle cartoline d’epoca sembra una bella piazza. Ora un lato della Sinagoga guardava direttamente in faccia la via Emilia, fronteggiando il Palazzo Comunale; appena voltato l’angolo, la Ghirlandina. Il ghetto diventava il centro della città.
Col tempo questa strana sensazione di vicinanza tra Duomo, Comune e Sinagoga fu molto attenuata. Durante il Fascismo qualcuno pensò bene di risistemare la piazza piantando qualche bell’albero, che richiamasse i piccioni e, soprattutto, nascondesse la visuale della facciata della Sinagoga. La piazza assunse più o meno l’aspetto che ha ora.

Per la verità, la prima volta che la vidi era un po’ diversa, e mi fece paura. Dovete sapere che Modena non è sempre stata la città carina per cui cerca di spacciarsi adesso. Nei primi anni Ottanta il centro era ancora discretamente sgarrupato, e attirava piccioni ed eroinomani da tutta la regione. Sul serio: c’erano gli sfattoni di transumanza, che la mattina prendevano il treno per venire a Modena a farsi.
Così, la prima volta che passai per Piazza Mazzini per i fatti miei, e avrò avuto 13, 14 anni, la trovai irrespirabile, ma non in senso figurato. Il tanfo dei piccioni non si reggeva. Per il resto, sembrava di essere in una tavola disegnata da Pazienza in un momento di calo (non d’ispirazione). Bisognava guardare davanti a sé, e filare dritti.

Ci abbiamo messo degli anni a recuperarla, piazza Mazzini, come quei vecchi mobili che hai sempre tra i piedi e non ti accorgi che sono belli: io ci ho messo degli anni per accorgermi che c’è una piccola Barcellona in piazza Mazzini, perché negli anni in cui sventrarono il ghetto tirava il liberty, e facevo già l’università quando qualcuno m’indicò i due diavoli beffardi che reggono il balcone dell’emporio armani.
C’è anche un busto a Mazzini, piccolo, nero, snobbato perfino dai piccioni. Dico qui senza ironia che Mazzini mi ricorda un po’ Bin Laden. Non le idee, proprio la faccia.
E poco più in là, all’angolo della Sinagoga, la macchina di pattuglia. Tutti i giorni. Tutte le notti. Anche alle cinque del mattino. Ci abbiamo messo anni ad accorgerci che è sempre là, e anche adesso molti di noi fanno finta di niente.
“Guarda che di lì non si può”.
“Ma chi vuoi che ci faccia caso a quest’ora”.
“Guarda che lì una macchina c’è sempre”.
“Ma valà”.
“Ma se ti dico che c’è”.
“Ma cosa ci farebbe, scusa”.
“È per la Sinagoga”.
“Ma valà”.

In Piazza Mazzini c’è un’edicola, e di fianco l’edicola ogni sabato c’è qualche associazione che cerca di spiegarti qualcosa e spillarti qualcos’altro. Per molti mesi ci sono stato anch’io: raccoglievamo firme per la Tobin Tax. Poi, già che c’eravamo, prestavamo un po’ di spazio alle iniziative sulla Palestina. Così per molti mesi, a Modena, i presìdi per la Palestina si sono fatti nell’antico ghetto degli ebrei, di fronte alla Sinagoga, e nessuno ha trovato nulla da dire (anzi forse in questura eran contenti, che risparmiavano una pattuglia). Questa era una delle cose di Modena che mi piacevano di più, e prima o poi pensavo di scriverci qualcosa, su piazza Mazzini. Ma non l’ho mai fatto, e mi tocca di farlo ora, per il suicidio di Al Khatib.

Il botto è stato forte, ha infranto le vetrate e poi forse un vuoto d’aria ha gonfiato le saracinesche dei negozi, che anche stasera stanno così, come palloni affacciati sul marciapiede. I danni alla Sinagoga sono lievi: si è staccato un po’ d’intonaco, i muri si sono anneriti. La gente esce dall’albergo con aria perplessa. Dall’altra parte della piazza manichini vestiti da Babbo Natale si arrampicano sul palazzo liberty. E sul lato della via Emilia c’è una piccola giostra in miniatura. I diavoli dell’emporio armani mi ridono sempre in faccia. Modena si ostina nella sua carineria, ma ieri notte è successo davvero qualcosa.

Gli investigatori parlano di “emulazione”: capita, a certi suicidi, di voler imitare qualcosa o qualcuno, di voler dare un senso più grande al gesto estremo. A pochi metri da qui, dietro al Duomo, un editore fascista ed ebreo, Formiggini, si buttò dalla Ghirlandina in segno di protesta per le leggi razziali. Contro chi protestava, Al Khatib?
È plausibile che ce l’avesse con gli ebrei, anche se probabilmente a Modena non ne aveva mai visto uno. Sono rimasti talmente pochi che la Sinagoga viene adoperata soltanto per le feste.
Più di Formiggini, a me viene in mente un altro italiano di mezza età, quello che decise (forse) di farla finita schiantandosi contro il Pirellone. Prima di lui un adolescente americano aveva puntato un piper contro un grattacielo a Chicago. Queste persone non sono terroristi, ma citano il terrorismo. Perché lo fanno?
Forse perché il terrorismo è un messaggio che funziona. Anche se a loro, più che il messaggio, interessa il suono. Il mezzo, non il fine. Autodistruggersi, non cambiare qualcosa. Sono anche loro, alla fine, vittime del Terrorismo. E senza essere terroristi, riescono comunque a farci molta paura. Terrorizzati come già siamo dai fori nelle bottiglie, scopriamo di avere un obiettivo militare proprio nel nostro centro storico. Ora dovremo tenere alta la guardia, come diceva quel famoso ministro, aumentare le pattuglie, far caso a ogni passante sospetto…

Intanto Modena fa finta di niente, festeggia il Natale e l’Accademia dei suicidi, ma stasera in via Blasia io ho visto le prime crepe dell’intonaco. È il secondo anno della Guerra al Terrore, e da qui sembra proprio che la stiamo perdendo.

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