Io credo in San Precario, ma temo forte che sia uno di quei santi sudamericani un po' bastardi, quelli che prima di Colombo erano divinità indie dai nomi orribili, tipo tetuccapaticac (solo a dirli si creano crepe nei muri), e che sono stati fatti santi alla bene meglio, con ancora dei pezzi di carne umana tra i denti.
Così, in effetti, io credo in lui, ma allo stesso tempo mi guardo le spalle, e dormo quasi sempre con un orecchio solo, e il telefono in ricarica. C'è sempre qualche imprevisto, uno sconosciuto che chiama e pretende di conoscerti, e che gli dovevi consegnare qualcosa tre mesi fa. E dire che Kafka aveva un contratto a tempo indeterminato. Cosa ne sapeva della vita, con le sue assurde incombenze? Del senso di colpa originale e primigenio? Cosa ne sapeva? Eh? Eh? Arrenditi, Franz, non ci arrivi al ginocchio. A noialtri scarafaggi del XXI sec.
Poi magari il santo cannibale ti passa una grazia: e ti ritrovi con tutto in ordine, un lavoro consegnato, e la sera libera, e nessuno tra i piedi, e magari c'è pure un bel film in tv, e si potrebbe persino pensare di andare a dormire a un orario decente. Senza l'ansia del giorno dopo. Senza puntare la sveglia, t'immagini?
Ma avrei dovuto staccare il telefono.
"Pronto, ciao, ti disturbo? Sono Chiara".
"Ah, Chiara, ciao".
Io conosco duecento chiare, dalle elementari alle medie all'università se ne aggiungevano sempre due o tre, devo anche aver convissuto con una qualche chiara, e poi ce n'è una che sta a Varese e mi chiede sempre quando mi vieni a trovare, a Varese. Ciaaao, qualunque Chiara tu sia, sono le dieci e mezzo di mattina e sto già bleffando. San Precario, aiutami.
"Senti, ho qui un problema con un libro, siamo in ritardo e…"
Tombola! È quella Chiara che mi dà i soldi, se io le risolvo i problemi. Magnifico. Meraviglioso. Mi alzo anche da letto, guarda (mi dondolo sulla corazza finché…)
"Allora ce lo stiamo dividendo, e pensavo che magari ne vuoi fare un po'".
"In effetti ho una settimana libera".
"Benissimo, allora se ti va ti do Ottanta cartelle".
"Ottanta?"
"Perché, sono poche?"
"No… aspetta… di cosa parla…"
"Comodini".
"Comodini? Ottanta cartelle? Una settimana?"
Le persone che vanno avanti nella vita sono quelle che non si fanno prendere alla sprovvista, che sanno immaginarsi scenari sempre nuovi, e io appena svegliato dovrei immaginarmi quante cartelle di comodini riesco a fare nella canicola, in una settimana in cui non ho quasi niente da fare, cioè, quasi niente tipo (adesso che ci penso):
– due esami e un collegio docenti
– un pezzo per l'università
– questa casa è un cesso, e se non pulisco entro sabato mattina, la mia donna si renderà conto che convive con un enorme scarafaggio
– ci sono le partite degli europei, inoltre
– e il blog, questo meraviglioso passatempo
"Chiara, non so… non sono sicuro di farcela".
"Che fai, rinunci?"
Barcollando, ho raggiunto la cucina, c'è del caffè freddo da qualcheparte. Ma bisogna prima aggirare una fila di bollette, che ci fanno lì? Devo averle messe appoggiate così per ricordarmi di pagarle. E poi c'è una voce che mi dice non è giusto. Non è giusto dover prendere decisioni in questo tipo di situazioni. Dovresti avere un calendario d'impegni, un conto del dare e dell'avere, una partita doppia, una partita iva, una partita vinta. Per una volta. Io sono lo schiavista di me stesso, è così? Ma ho dei complici, non è vero?
"E se te ne faccio Quaranta?"
"Sessanta".
Massì, dopotutto non è mica necessario dormire, nella vita. Con questo caldo, poi.
"Va bene, sessanta".
"Perfetto-ti-mando-subito-il-contratto-l'-originale-in-copia-e-tutto..."
Svanisce nel brusio di fondo, mentre la caffeina fredda entra finalmente in circolo e mi chiarisce la situazione: sono un coglione. Non potrò farcela mai. Non si fa carriera nella schiavitù. Ci si spezza il collo e basta.
Neanche il tempo di svegliarsi da sonni inquieti.
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